Può sembrare, a prima vista, che la conseguenza ultima e l’effetto necessario delle istituzioni democratiche sia di mescolare i cittadini nella vita privata come nella vita pubblica e di costringerli a condurre un’esistenza comune.
Ciò equivale a interpretare in modo molto grossolano e tirannico l’eguaglianza che nasce dalla democrazia.
Non vi è stato sociale né vi sono leggi che possono rendere gli uomini talmente simili che l’educazione, la fortuna e i gusti non possano stabilire qualche differenza tra loro; e, se uomini differenti possono talvolta avere interesse a fare in comune le stesse cose, si deve credere che essi non troveranno mai in ciò il loro piacere. Essi sfuggiranno sempre, checché si faccia, alla mano del legislatore, uscendo in qualche modo dalla cerchia in cui si cerca di rinchiuderli, stabiliranno, accanto alla grande società politica, molte piccole società private, nelle quali la somiglianza delle condizioni, delle abitudini e dei costumi costituirà il legame comune.
Negli Stati Uniti i cittadini non hanno alcuna preminenza gli uni sugli altri né si devono obbedienza o rispetto reciproco; essi amministrano insieme la giustizia e governano lo stato e, in generale, si riuniscono tutti per trattare gli affari che influiscono sul destino comune; ma non ho mai sentito dire che si pretenda di farli divertire tutti allo stesso modo né negli stessi luoghi. Gli americani, che si mescolano così facilmente nelle assemblee politiche e nei tribunali, si dividono invece con grande cura in piccole associazioni molto distinte per gustare a parte le gioie della vita privata. Ognuno di essi vede con piacere che i suoi concittadini gli sono eguali, ma ne ammette solo un numero molto limitato fra i suoi amici ospiti.
Ciò mi sembra naturale. A mano a mano che la cerchia della società pubblica si allarga, bisogna aspettarsi che la sfera delle relazioni private si restringa: io credo che i cittadini delle nuove società, invece di vivere in comune, finiranno per fermare solo piccoli gruppi.
Presso i popoli aristocratici le varie classi sono come vaste cinte, dalle quali non si può uscire né entrare. Le classi non comunicano affatto tra loro, ma all’interno di ognuna gli uomini hanno quotidiane relazioni. Anche quando non sarebbero naturalmente adatti l’uno all’altro, sono avvicinati dagli interessi della comune condizione.
Ma quando né la legge né il costume si incaricano di stabilire relazioni frequenti e abituali fra certi uomini, la somiglianza accidentale dei gusti e delle tendenze è decisiva, e ciò fa variare all’infinito le piccole società particolari.
Nelle democrazie, dove i cittadini non differiscono mai molto fra loro e si trovano naturalmente così vicini che ogni momento può accadere loro di confondersi nella massa comune, si formano moltissime classificazioni artificiali e arbitrarie, per mezzo delle quali ognuno cerca di distinguersi per timore di essere trascinato contro voglia nella massa.
Non potrebbe non essere così, poiché essi possono mutare le istituzioni umane, ma non l’uomo: qualunque sia lo sforzo generale di una società per rendere i cittadini eguali e simili, l’orgoglio personale degli individui cercherà sempre di sfuggire al livellamento e vorrà formare in qualche punto una diseguaglianza di cui approfittare.
Nelle aristocrazie gli uomini sono separati gli uni dagli altri da alte e immutabili barriere; nelle democrazie sono divisi da mille piccoli fili quasi impercettibili sorpassati e modificati ogni momento.
Perciò, quali che siano i progressi dell’eguaglianza, si formeranno sempre presso i popoli democratici numerose associazioni private in mezzo alla grande società politica. Ma nessuna di esse rassomiglierà nei modi alla classe superiore che dirige le aristocrazie.
DE TOQUEVILLE, Alexis, (1835-1849), La democrazia in America, a cura di Giorgio Candeloro, Milano: Rizzoli, [1992], 2005 (7a ed.), pp. 633-634.