Quando cerco di immaginare il paese che vorrei lasciare a mio figlio penso a qualcosa di molto semplice e allo stesso tempo di inconcepibile per la maggioranza delle persone che mi circondano.
Penso ad esempio a un paese che nasca da un’aggregazione volontaria tra comunità locali, che legiferino indipendentemente su tutte le materie che non delegano volontariamente al governo federale. Penso a un paese in cui la libera concorrenza fiscale tra i governi federati venga vista non come una minaccia ma come una virtù, come l’opportunità di ridurre gli sprechi e incoraggiare i privati a investire dove la pressione fiscale e il peso dello Stato sono minori. Provo a immaginare un paese in cui si realizzino forme di mutualismo privato, spontanee e volontarie, e il welfare state sia concesso come opzione ai soli adulti consenzienti, un po’ come le pratiche sadomasochiste. Naturalmente di tasca loro.
Penso a un paese basato su pochi principi generali, in cui il diritto di legiferare a proprio uso e consumo sotto la bandiera del “bene comune” venga estirpato dalle mani dei rappresentati politici. In sostanza penso a un luogo in cui la democrazia venga ridimensionata ad arte del compromesso, e non decantata come valore morale a danno della libertà. Una democrazia che non si nutra di arbitrio, coercizione, estorsione fiscale, esproprio della proprietà privata.
Dunque penso ad un paese dotato di istituzioni leggere, frazionate, poste sotto la vigilanza di una milizia popolare, sotto il controllo di una cittadinanza attiva, dotata di pieni poteri di deliberazione e di abrogazione accessibili in qualsiasi momento e dominanti su quelli delegati alle istituzioni politiche.
Questa utopia (di gran lunga migliore della distopia da incubo in cui sopravviviamo) somiglia un po’ a ciò che è stata la Confederazione Elvetica per 150 anni. Cioè prima che, sotto la spinta asfissiante dell’Unione Europea da un lato e dei socialisti dall’altro, la Svizzera rinunciasse ad affidare la soluzione dei propri problemi al mercato e si lasciasse tentare dalle lusinghe del sussidio pubblico, con il rischio di indebolire un modello economico un tempo sorprendente per la sua vitalità.
Libertà economica e autogoverno sono inestricabili. Non possiamo attendere per miracolo l’autoriforma politica di un paese, il nostro, costruito da una dinastia stracciona e da una massoneria criminale, unificato nel sangue per pagare il conto delle guerre di espansione; un paese che, in omaggio ai suoi fondatori, ha dovuto adottare uno dei sistemi politici più ottusi e liberticidi d’Europa, quello napoleonico.
Il nostro, sciaguratamente, è un paese in cui il prezzo della democrazia è stato il parassitismo diffuso, lo spreco, la dissipazione, la demolizione del tessuto economico. La nostra è una democrazia basata sul sussidio in cambio del voto dei sussidiati, che è degenerata producendo sacche di privilegio insostenibili e riducendo, come da manuale, la classe media produttiva a galera popolata da schiavi remanti. Un simile modello può dare solo frutti bacati: declino, oligarchia e totalitarismo.
La cricca di cinismo criminale, ipocrisia, corruzione e rapina, con il suo centro pulsante sito nella capitale amorale, viene ammantata di sostantivi e aggettivi altisonanti da parte della scuola italiana e degli organi di informazione, entrambi fruitori dell’equazione “acquiescenza e sostegno ideologico uguale posti e carriere”. In questa temperie, gli scolari delle madrasse di stato hanno preso il potere avocando un po’ alla volta a sé il ruolo di decisori di ultima istanza, in grado di imporre e pianificare dall’alto il percorso delle nostre vite e la sostenibilità del nostro modello economico.
Lo hanno fatto senza capirne alcunché, o non curandosi delle conseguenze di ciò che facevano. E hanno seminato desolazione e sfacelo, facendosi forti della nostra rassegnazione di schiavi fiscali defraudati e derubati con ogni mezzo del frutto del lavoro di una vita, dunque derubati della nostra stessa vita. Siamo un gregge senza guida, incapace di concepire e trovare una via di scampo.
Il particolarismo e il servilismo dei lombardi sono la chiave della loro incapacità di reagire. Il nostro popolo confida ancor oggi nelle mancette di uno Stato aguzzino più che nell’alleanza con il proprio vicino di casa e compagno di sventura.
La libertà è la condizione imprescindibile del vivere felici, che è poi una delle condizioni qualificanti del vivere, e non conosce mezze misure. Il compito da prefiggersi è quello di risvegliare un istinto di resistenza e disobbedienza civile. Occorre ricordare che lo Stato è una belva sanguinaria da bastonare appena alza la cresta, che lo Stato è il problema, non la soluzione. Bisogna far capire che la tracotanza dello Stato è misura della sua fragilità, della coscienza di essere giunto quasi a fine corsa.
Occorre spiegare che per tutte le ragioni sopra esposte è folle pensare che l’unico futuro possibile debba necessariamente avere un perimetro a forma di stivale. A meno che abbiamo messo al mondo dei figli per farne dei servi volontari, dei limoni da spremere come noi – e sarebbe una forma assai discutibile di amore materno o paterno.