La direttiva detta “casa green” è soltanto l’ultimo frutto avvelenato di un’idea pervertita di Unione europea e, oltre a ciò, dello stesso declino del diritto
di Carlo Lottieri
Sorta per favorire la convivenza nel Vecchio Continente superando le barriere che separavano gli Stati nazionali, oggi l’Unione Europea tende a presentarsi come uno Stato in costruzione (il progetto degli “Stati uniti d’Europa”), che cerca sempre più di dotarsi di tutti quegli elementi che contraddistinguono una realtà sovrana. Ovviamente questo non è un obiettivo facilmente raggiungibile, data la disparità di interessi tra le varie realtà che compongono l’Europa, ma è pur vero che l’ideologia unionista può contare su solidi sostegni in larga parte del mondo della politica, dell’economia e della cultura.
Per giunta, questo progetto volto a chiedere una crescente concentrazione delle decisioni in mano a pochi è sostenuto con forza dagli ideologi del nuovo establishment politico e culturale, oltre che dall’azione lobbistica di tanti grandi gruppi industriali.
Nuovi miti e crisi del dibattito scientifico
Nello specifico, la direttiva si proporrebbe di aiutare l’umanità di fronte ai danni che potrebbero derivare a tutti da un aumento della temperatura. Benché alcuni decenni fa non fossero pochi i climatologi che sostenevano che ci si stava dirigendo verso una nuova era glaciale, oggi la vulgata rovescia il racconto, anche se – come allora – sembra non accettare alcun contraddittorio. In realtà, tutti sanno che i dati in nostro possesso sul mutamento della temperatura sulla terra sono tanto più affidabili quanto più sono vicini. È possibile e anche probabile che un aumento della temperatura sia in atto, ma come non era una certezza assoluta quella che veniva diffusa negli anni Settanta, anche ora un po’ di prudenza sarebbe d’obbligo.
Pure se fossimo certi che il pianeta si sta riscaldando, dovremmo comunque interrogarci su tutte le conseguenze di questo fenomeno. L’ideologia che ci vende come certezza incontrovertibile il riscaldamento del pianeta afferma pure che questo cambiamento sarebbe nocivo. Ne siamo davvero sicuri? È così sempre e ovunque? Sembra molto più plausibile che questo mutamento climatico comporti un mix di danni e benefici: bisognerebbe allora iniziare a valutare se i primi siano davvero più rilevanti dei secondi.
La tesi propagandata dai politici e da quanti danno un contributo alla loro causa è che un riscaldamento globale di un grado sarebbe non soltanto accompagnato da molti più guasti che vantaggi (il che non è per nulla scontato, se soltanto si pensa a quanta meno energia ci vorrebbe per riscaldare le abitazioni in Germania o Polonia…), ma sarebbe tutto da imputare all’azione umana. L’obiettivo della green transition si basa su questa tesi: le attività umane producono anidride carbonica e quest’ultima è la causa dell’aumento della temperatura.
Su tale punto, ancor più che su quelli precedenti, è facilmente percepibile come l’ideologia sia nemica del pluralismo culturale e quindi della ricerca scientifica.
Nel corso degli anni, in effetti, sono stati numerosi gli studi condotti da scienziati di prestigio che hanno portato il loro contributo al dibattito in materia. Sappiamo con certezza, inoltre, che il clima sulla terra è sempre cambiato: talvolta riscaldandosi e in altri momenti raffreddandosi. In quei casi, ovviamente, non vi era alcuna origine antropica: non erano le attività umane a generare tutto ciò, ma le costanti trasformazioni che la stella al centro del nostro sistema, il sole, conosce di continuo.
La cosa interessante è che, a dispetto delle intimidazioni provenienti dai difensori dell’ideologia verde (per chi dissente è stato ormai consolidato l’epiteto “negazionista”, che prima era usato per designare gli storici che contestavano l’esistenza dei campi di concentramento nazisti), il dibattito in materia rimane aperto. Eppure, la grancassa politico-mediatica ha ormai imposto – fuori dall’ambito degli specialisti – l’idea che mettere in discussione la tesi secondo cui il global warming avrebbe al 100% un’origine riconducibile alle emissioni umane di CO2 equivarrebbe a essere nemici della scienza. Un’altra associazione corrente, al riguardo, è quella con i terrapiattisti.
La natura dogmatica di tutta questa impostazione emerge con chiarezza, infine, quando ci si chiede cosa si possa fare. In effetti, anche nell’ipotesi che si prenda tutta per buona la versione dei fatti fornitaci dai propagandisti del catastrofismo climatico, anche in quel bisognerebbe comunque ragionare sul da farsi. Se sapessimo con ragionevole certezza che la terra sta surriscaldandosi, che le conseguenze di tutto questo sono negative e che la causa è da addebitare agli esseri umani, nulla ci dice che la soluzione debba venire dal blocco delle nostre attività che emettono CO2. Tutto dipende dai costi di una scelta simile e dalle alternative disponibili.
Immaginiamo che si sappia che il costo per l’umanità di questa cosiddetta transizione verde (che obbligherà a buttar via tante produzioni e tecnologie) sia 100 e che la scelta di non operare questo stop generalizzato ma di agire per correggere le conseguenze del global warming sia 50, per quale motivo si dovrebbe imboccare la prima strada? Per intenderci, se l’innalzamento della temperatura comporta danni alle spiagge, non sarebbe il caso di valutare l’entità di questi problemi e le soluzioni adottabili, prima di optare per scelte tanto radicali e distruttive come sono quelle che obbligano a convertire l’intera industria automobilistica europea e a ristrutturare la maggior parte delle abitazioni in cui viviamo?
Prima di assumere questa o quella decisione, ogni soggetto razionale tende a utilizzare una semplice analisi costi-benefici. L’homo ideologicus, però, segue criteri assai diversi. La sua visione del mondo assolutizza un aspetto – in questo caso, il riscaldamento globale come unica minaccia per il nostro futuro – e di conseguenza è pronto a sacrificare ogni cosa in vista del raggiungimento di quello che considera il solo obiettivo importante.
Il trionfo della legislazione
In fondo, però, il global warming non fa altro che riproporre situazioni che abbiamo già conosciuto. Sulla questione, le competenze dei filosofi, dei giuristi e degli scienziati sociali sono molto più importanti di quelle dei climatologi, dato che qui si tratta di riconoscere come questa fase estrema della modernità abbia visto il radicalizzarsi di questioni ben note.
Fin dai suoi primi passi, in effetti, lo Stato moderno ha imposto una concezione monista del potere sovrano che ha soppiantato la complessità plurale dell’ordine giuridico del Medioevo. Gli effetti di tale cambiamento radicale sono ancora sotto i nostri occhi.
Un dato caratteristico della società contemporanea è proprio da riconoscere nella riduzione del diritto a semplici decisioni del governante di turno. Ormai ci siamo un po’ tutti abituati a pensare che le regole della convivenza siano comandi provenienti da chi è stato designato a ciò dal processo politico che seleziona i governanti e i legislatori.
Le radici di questo statalismo sono profonde. Nell’età moderna, nell’Europa continentale s’è assistito a un fenomeno inedito: alla quasi completa conquista del diritto da parte della classe politica. Se in età medievale il diritto aveva una vita propria e godeva di una larga autonomia, a un certo punto i principi hanno iniziato a considerarlo “cosa loro”.
Nel Medioevo il diritto emergeva dapprima dalle consuetudini, e poi anche dalla dottrina (la scienza giuridica elaborata dagli esperti) e dalla giurisprudenza (l’insieme delle sentenze dei tribunali). Oltre a ciò, in quella società vi era un forte consenso in merito al fatto che vi fossero princìpi di diritto naturale che erano giusti in sé e che nessuno – nemmeno il papa o l’imperatore! – poteva dissolvere.
La modernità ha visto l’assorbimento del diritto da parte della politica e, di conseguenza, il trionfo della legge. Ne è derivato che a un certo punto ci siamo convinti che non ci diamo regole per tutelare i nostri diritti, ma che al contrario abbiamo diritti perché qualcuno ha calato dall’alto talune ben precise leggi. Sul tema a metà del diciannovesimo secolo Frédéric Bastiat ha scritto pagine illuminanti (basti pensare a La loi e anche a Propriété et loi), che ancora oggi ci permettono di comprendere la gravità del disastro culturale che s’è imposto sulla linea che conduce dall’avvento del potere sovrano alla Rivoluzione francese, dagli scritti di Jean Bodin a quelli di Thomas Hobbes e Jean-Jacques Rousseau.
Dalla crisi del diritto a un emergenzialismo senza limiti
Negli ultimi vent’anni, per giunta, quella visione arbitraria e illiberale del diritto ha elaborato una sua versione ancor più radicale. A partire dall’attacco alle Torri Gemelle, i regimi democratici di matrice europea hanno dovuto fare i conti con ripetute situazioni emergenziali legate prima al terrorismo internazionale di matrice islamista, poi alla crisi finanziaria dei subprime, quindi alla pandemia, e in seguito alla guerra russo-ucraina, alle difficoltà di approvvigionamento energetico, alla grande questione (appunto) del global warming.
Di fronte a queste situazioni nuove, le classi politiche si sono sentite legittimate a sospendere molti diritti in precedenza considerati inviolabili: si pensi all’introduzione, negli Usa, del cosiddetto “Patriot Act”. Poiché l’ordinamento non è quasi nulla più che l’architettura delle regole che il ceto governante delinea, siamo entrati in una fase di costante stato di necessità nel quale la nozione stessa di “regola” è venuta meno. Se ogni giorno non so quale comportamento sia lecito e quale non lo sia, come è accaduto in larga parte d’Europa durante i mesi più duri della pandemia, questo significa che non c’è più alcuna “norma” né “normalità”. Il governo degli uomini ha definitivamente soppiantato il governo delle regole.
La tesi prevalente è che questa ricorrente sospensione del diritto sia necessaria. La lezione di Carl Schmitt e di altri, però, è lì a sottolineare che gli stati di eccezione sono in larga misura una costruzione artificiale, condizionata dagli interessi in gioco. Se prendiamo il caso della crisi finanziaria del 2007-2008, ad esempio, molti hanno ben spiegato come essa sia stata il risultato anche e soprattutto di politiche monetarie, e quindi del venir delle regole fondamentali che caratterizzano l’economia libera (sostituite da scelte arbitrarie in settori come la produzione di moneta, la fissazione dei tassi d’interesse, ecc.). Dinanzi a quelle difficoltà, allora, il moltiplicarsi di decisioni governative non era affatto necessario né opportuno.
È la politica che dapprima ha minato la stabilità del sistema economico e poi ha saputo sfruttare la crisi che essa stessa ha generato, moltiplicando la propria capacità d’intervento. In questa situazione sembra allora difficile che le società di tradizione europea tornino a scoprire la vera natura del diritto, che dovrebbe appartenere alla società e non alla classe politica. Per questa stessa ragione appare arduo immaginare che si possa uscire da questo profluvio di ordini, i quali rendono tanto instabile l’ordinamento. Entro questo quadro non sappiamo con quali norme ci troveremo a operare tra qualche anno (basti pensare alle direttive europee in tema di vetture e abitazioni), con il risultato che ogni progetto imprenditoriale appare davvero a rischio.
Le metamorfosi del potere dell’uomo sull’uomo
Alla base di tutto questo, allora, c’è l’antica, antichissima questione del potere. Perché non c’è dubbio che il potere esiste e una delle sue manifestazioni più caratteristiche consiste proprio nella capacità da parte di alcuni (dominatori) di estrarre le risorse di altri (dominati).
Larga parte della cultura contemporanea va letta come un apparato “ideologico” – stavolta in senso marxiano (idee che sono lì a giustificare e legittimare l’arbitrio) – che è espressamente al servizio dei potenti. Quando Liam Murphy e Thomas Nagel affermano che non esiste alcuna illegittimità della tassazione dal momento che la proprietà è un “mito”, essi sono infatti funzionali all’azione di chi opprime il prossimo con la fiscalità, con gli espropri e con la regolazione. In un loro libro di vent’anni fa (The Myth of Ownership: Taxes and Justice) questi due autori statunitensi avevano sposato una prospettiva radicalmente legalista, secondo la quale la proprietà è un costrutto del tutto artificiale e che ha la sua unica origine nell’ordinamento. Siamo proprietari, insomma, grazie a qualche articolo del Codice. Al tempo stesso, è parte dell’ordinamento anche il diritto tributario e, di conseguenza, è l’ordinamento nella sua sovrana solitudine a stabilire chi deve avere e chi non deve avere. Con la tassazione, i titoli prima affidati a qualche privato vengono trasferiti a qualche politico e pubblico funzionario: a questo punto i sovrani dispongono di un’illimitata capacità di estrazione delle risorse, che questa ideologia legalista rende quasi del tutto “innocente”.
Se non si comprende come la direttiva compaia in un Occidente dominato da questa cultura politica del tutto servile nei riguardi del potere sovrano e degli intrecci tra politica, cultura ed economia, si capisce ben poco di quanto sta avvenendo.
La direttiva colpisce le case proprio perché l’istituto della proprietà era già stato ampiamente svuotato, e con esso anche quel baluardo a tutela della libertà che esso ha rappresentato per secoli.
Dal declino della proprietà al trionfo del dirigismo