Nei giorni più bui del Coronavirus, a inizio marzo, ero a Cremona, la città dove sono nato. Un parente aveva avuto un malore. Ero partito da Milano in fretta e furia. Cosa ho trovato a casa? Il parente in buone condizioni, per fortuna. Molta solitudine. Totale disillusione.
Era saltato tutto. Non si capiva se fossimo al picco del contagio o solo all’inizio. Gli ospedali erano collassati. Si diceva fosse stato mobilitato l’esercito. La metropoli, non ancora raggiunta dalla malattia, pensava a un enorme ospedale dove isolare i contagiati. Nel frattempo, i malati erano ricoverati nelle strutture di provincia, impreparate ad accogliere un numero così elevato di pazienti bisognosi di terapia intensiva. Mancavano medici e infermieri. Mancava il materiale per proteggere il personale sanitario. Mancavano indicazioni chiare su quali protocolli andassero seguiti per garantire l’igiene e individuare i positivi al virus. Il governo traccheggiava, prendeva o perdeva tempo, non si capiva. Le notizie erano comunicate malamente e con un riprovevole schema: uscivano anticipazioni buttate lì per valutare come reagiva la cittadinanza, poi arrivava il decreto vero e proprio. Spesso incomprensibile e quindi seguito da precisazioni e precisazioni delle precisazioni. Chi era in prima linea assisteva sgomento allo spettacolo. La Regione si difendeva come poteva. I malati comuni erano abbandonati nonostante l’impegno delle strutture locali. Andai dal medico di famiglia per sapere il da farsi. Mi rispose dalla finestra dell’ambulatorio: “Sto seguendo troppi casi di Covid, meglio se non entri”. Mi sconsigliò l’ospedale. Era il luogo più pericoloso della città. Alla fine, dopo lunga ricerca, riuscimmo a ottenere un esame di controllo in una clinica privata.
La zona rossa, dalla quale non si entrava e non si usciva, continuava a divorare chilometri, si espandeva, dilagava dalle pianure fino all’imbocco delle valli del nord e nella notte dell’8 marzo si mangiò l’intera Lombardia. In quei giorni ho visto l’autoambulanza portare via una intera famiglia nel palazzo accanto al nostro. Eppure, un viandante distratto avrebbe potuto lasciarsi ingannare dall’apparenza. C’era il sole. La gente camminava per strada. Avevano fatto perfino il mercato. Ma le bancarelle erano state levate quasi subito e i negozi erano vuoti. Sulle serrande abbassate non era raro trovare un messaggio scritto a mano: riapriremo quando possibile. (Molti non hanno riaperto affatto). Un po’ alla volta iniziai a contare: una, due, tre mascherine sul volto dei passanti. Incrociarsi sul marciapiede diventò un’operazione imbarazzante, lo leggevi negli occhi di chi ti veniva incontro: “E se proprio mentre ci sfioriamo a uno dei due viene da starnutire?” È grottesco, lo so. Ma succedeva, era la realtà di quei momenti miserabili. Di sera calava un silenzio al quale non eravamo più abituati. Incuteva timore. Era spezzato da qualche macchina e soprattutto dal suono delle sirene. Polizia? Ambulanze? Difficile dire. Alla sera uscivo sul balcone a fumare l’ultima sigaretta. In quei giorni era illuminato dalla Luna. C’era qualcosa di strano. All’improvviso ho capito. Era il rumore dei treni, non lo sentivo da quando ero bambino, era sparito nella mia adolescenza, coperto dal fragore di una città piccola ma in movimento. Di quanti decenni eravamo tornati indietro in poche settimane?
Ho accompagnato il mio parente a fare l’esame di accertamento nella clinica privata. In accettazione ho visto una donna strapparsi la mascherina e gridare che aveva 37 di febbre ma nessuno voleva farle il tampone. Nella sala sono spariti tutti tranne chi riusciva ad appiattirsi contro il muro, trattenendo il respiro. Mentre aspettavo, stanco morto, mi abbandonai alle fantasticherie. Pensavo alle cose da fare a Cremona, quando saremmo tornati alla normalità e tutto sarà finito. La mattina non esiste. Si dorme. Ore 12. Pranzo alla Lucciola in riva al Po, fuori a meno che non ci sia una nebbia da non vedere la forchetta. Rapido passaggio davanti al fiume, breve commemorazione dei tanti bagni che ho fatto da perfetto incosciente e delle volte, ben due, in cui sono cascato dalla iole e dalla veneziana (sono nomi di barche a remi). Passeggiata sull’argine infinito. Breve ricordo che mi tengo per me. Ritorno in centro. Varie opzioni. Caffè in Piazza del Duomo. Breve commozione per la bellezza irraggiungibile prodotta nel medioevo e nel rinascimento. Invettiva interiore contro i tempi moderni. Rotta verso il Club 33, ascolto di tutte le novità discografiche con gli avventori abituali. Occhiate di compatimento per chi entra e compra dischi brutti (quasi tutti). Aperitivo: non si fa. Invettiva interiore contro i tempi moderni che hanno inventato orrori come i buffet di cibo schifoso da servirsi con vino dolciastro e caldo. Ritorno a casa attraverso i giardini di Piazza Roma. Invettiva interiore contro i giovinastri che imbrattano la Galleria. Breve sospetto di essere diventato un vecchio rompicoglioni, ipotesi scartata perché sono sempre stato un rompicoglioni. A cena si va da Cerri, non si entra nella sala ma si rimane vicino al bancone per guardare le partite di calcio, qualunque partita di calcio, anche la serie b del campionato azteco, se esistesse. La sera non c’è niente da fare. Si va alla birreria Pedavena o in qualsiasi posto sia il luogo di ritrovo del momento. È ora di dormire. Proprio allora fui svegliato dal torpore. Il mio parente aveva fatto. La risonanza era pulita. C’erano altri esami da compiere ma al momento non era realistico fissarli. Furono rinviati a data da destinarsi. Tuttora non sono stati ancora eseguiti. Quanta gente si trova nelle condizioni di non sapere di cosa soffre o ha sofferto?
In quei giorni siamo stati costretti a prendere decisioni difficili da quando la libertà di movimento, anche all’interno della zona rossa, era soggetta a gravi restrizioni. Bisognava scegliere ma non c’era opzione giusta. Si poteva solo cercare di calibrare la portata dell’errore. Come scegliere tra assistere una madre malata e prenderti cura di un figlio ancora giovane? Eppure, dovevi. E dovevi scegliere se anteporre la tua salute all’imperativo di soccorrere i tuoi cari. E dovevi scegliere se continuare la tua vita come niente fosse col rischio di conservare comportamenti pericolosi per la salute pubblica. Poi c’è stato il surreale lockdown. A quel punto però si erano già formate in me alcune convinzioni che l’illiberale gestione dell’emergenza ha soltanto reso più estreme, senza mutarle di segno. Dalla lettura dei giornali, quasi tutti proni davanti alle misure “cinesi” inflitte alla cittadinanza, emerge che è colpa dei cittadini se Bergamo, Cremona e Brescia hanno sofferto come in guerra. Colpa nostra e dell’ospedale di Alzano che ha commesso errori (quali non si sa). Colpa anche delle aziende che hanno continuato a lavorare. Colpa di chi, come me, il 22 febbraio è andato a Milano per assistere ad Atalanta-Valencia. Se la colpa è nostra allora è innocente chi ha tentennato sulla istituzione della zona rossa ad Alzano, sono innocenti i sindaci che organizzavano sagre dell’involtino primavera mentre il Covid infuriava, sono innocenti amministratori e politici che hanno preso i primi provvedimenti con settimane di ritardo, è innocente chi si è attribuito con decreti di dubbia legalità pieni poteri senza sapere cosa farsene, tranne creare il panico. La morale è questa: tutta colpa nostra, lorsignori non hanno colpe. Evviva lorsignori.
Mai il governo centrale, e io metterei nel sacco anche il Pirellone, è sembrato più lontano di oggi. In questi giorni abbiamo assistito a uno spettacolo scontato ma sempre rinviato: il fallimento dell’unità nazionale, lo scontro tra le regioni, la mancata solidarietà, l’indifferenza incompetente di chi sta al potere a centinaia di chilometri dai luoghi dove bisogna decidere.