Il Quarantotto è stato tante cose assieme. È in quell’anno di metà Ottocento, infatti, che Karl Marx e Friedrich Engels pubblicano il “Manifesto del partito comunista” e che a Parigi un’insurrezione popolare rovescia la monarchia orleanista e favorisce l’avvio dei primi esperimenti socialisti, destinati a rapido naufragio. È in quella medesima fase storica che da più parti per la prima volta ci si riferisce alla libertà in modo nuovo: l’accento sull’autonomia degli individui viene meno, mentre s’impongono concezioni variamente irredentiste e nazionaliste. La retorica politica muta in profondità, poiché il liberalismo orientato a proteggere i diritti dei singoli lascia il posto al mito dell’indipendenza nazionale e alla glorificazione delle collettività storiche.
Tra Milano e la Svizzera, però, nel 1848 si ebbe anche un “momento” federalista. In effetti, uno tra i maggiori attori delle Cinque Giornate di Milano, Carlo Cattaneo, auspicava un Risorgimento in grado di far nascere una federazione di realtà regionali affrancate da ogni dominio esterno, libere di darsi proprie regole e amministrarsi da sé. L’ostilità verso il Piemonte dei Savoia non traeva origine solo dai convincimenti repubblicani, ma anche dalla consapevolezza che un’unificazione di stampo francese, fortemente centralizzata, avrebbe mortificato ogni libertà e diversità.
Se il federalismo di Cattaneo resterà un progetto irrealizzato, in Svizzera la crisi del Sonderbund (un conflitto che nel 1847 aveva opposto i cantoni cattolici e conservatori a quelli protestanti e liberali) troverà una sua ricomposizione proprio con quella costituzione federale che le comunità elvetiche elaborarono in parte poggiando sulla loro storia, davvero peculiare, e in parte traendo ispirazione dalle istituzioni americane.
Non è un caso se il milanese Cattaneo, deluso dagli sviluppi politici nella penisola, passerà gli ultimi anni proprio in Canton Ticino: in quella Svizzera di lingua italiana e cultura lombarda nelle cui istituzioni democratiche, repubblicane e federali troverà l’incarnazione più compiuta di quello che avrebbe voluto realizzare anche nel suo Paese.
Come Mazzini prevalse su Cattaneo
Sebbene entrambi non abbiano potuto realizzare fino in fondo i loro progetti, Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini sono stati due tra i principali protagonisti intellettuali dell’Italia risorgimentale. Benché accomunati dalla volontà di fare un’Italia repubblicana, essi avevano però visioni e prospettive per tanti versi opposte.
Dominato da una sorta di religione politica, Mazzini guardava all’unificazione come a un progetto ben più che istituzionale: ai suoi occhi, costruire la nazione era un’operazione spirituale che giustificava qualsiasi sacrificio. Costretto a vivere a Londra poiché esiliato, il rivoluzionario genovese organizzò molti tentativi insurrezionali: tutti destinati all’insuccesso. La lunga lista di rivolte mazziniane represse nel sangue comportò così il sacrificio di tanti giovani e questo attirò su di lui molte critiche. Quelle perdite, tuttavia, avevano per Mazzini un valore assai limitato dinanzi all’obiettivo ultimo: alla costruzione di un’Italia misticamente unita da una medesima legislazione, un unico esercito, una sola bandiera.
All’inizio degli anni Sessanta del diciannovesimo secolo, l’Italia realizzata da Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele II sarà monarchica e sabauda. Apparentemente quella del repubblicano Mazzini resterà dunque una predicazione senza esito, ma le cose non stanno così. Tra molti garibaldini e anche tra vari giovani destinati – in seguito – a occupare posizioni di rilievo nell’Italia di secondo Ottocento, la predicazione del rivoluzionario genovese aveva esercitato un’influenza assai significativa. Sebbene sia nata in forma di regno e non come repubblica, nel 1861 l’Italia sorse a partire da tesi e visioni romantiche molto segnate dal mazzinianesimo e da esso dipendenti. Tantissimi protagonisti della storia che ha condotto all’unificazione, insomma, furono mazziniani e appoggiarono le iniziative di Casa Savoia soltanto per realismo.
Il vero sconfitto dei dibattiti del diciannovesimo secolo non sarà allora Mazzini, che non a caso entrerà a pieno diritto nel Pantheon della nuova Italia: come ancora attesta la toponomastica di tante città. Il vero sconfitto sarà l’illuminista Cattaneo, fautore di una concezione della politica assai più modesta e “laica”, mai propenso a mitizzare il potere e invece volto ad assicurare un ordine istituzionale in grado di garantire il massimo di libertà per tutti.
Se in Mazzini abbiamo un’esaltazione della comunità italiana che apre al nazionalismo (alla sacralizzazione della politica e della Nazione, all’affermazione di quel “senso dello Stato” che ancora oggi viene evocato di continuo), in Cattaneo prevale invece la consapevolezza che la libertà dei singoli deve essere il vero obiettivo di ogni ordine civile. L’uomo di Mazzini è una mera cellula dell’organismo nazionale, mentre l’individuo di Cattaneo ha un valore altissimo e autonomo: è persona, singolarità, soggettività.
Non a caso il federalismo cattaneano è liberale sul piano istituzionale e libero-scambista su quello economico. Egli non aveva in mente un’Europa di Stati nazionali e tanto meno un annullamento degli stessi in una comunità europea da costruire. Al contrario, riteneva che piccole realtà locali indipendenti fossero meglio in grado di garantire tutti i servizi di cui singoli e famiglie hanno bisogno, specie se questi minuscoli cantoni sanno apprendere l’arte del patto e dell’alleanza. In effetti, le comunità possono essere indipendenti e assicurare al meglio la libertà dei loro cittadini se imparano a “federarsi”.
Cattaneo apprezzava le istituzioni del mercato e del federalismo perché le une e le altre poggiano sul diritto e sulla libertà contrattuale. Ed egli guardava all’America come alla migliore realizzazione di un ordine capace di garantire il massimo dell’autonomia dei singoli grazie proprio ad accordi risultanti da preferenze e decisioni, sempre dipendenti dal consenso di quanti ne fanno parte.
Al riguardo è chiaro come il richiamo alla democrazia abbia – in Mazzini e in Cattaneo – significati molto diversi: perfino opposti. Nel genovese, il suffragio universale è la condizione necessaria al consolidamento della Nazione. Solo processi di partecipazione che coinvolgano l’intera popolazione possono rendere tutti consapevoli del loro essere parte di un’entità più alta e più nobile, che si cementa davvero solo nel fuoco delle mitraglie. E in questo senso, lo Stato democratico – un po’ come in Rousseau – non nasce a protezione dell’individuo, ma al fine di annullarlo nella comunità nazionale.
Cattaneo appartiene invece a una generazione (basti pensare, negli Stati Uniti, agli intellettuali dell’era jacksoniana) persuasa che l’estensione del suffragio avrebbe rafforzato la libertà di tutti, cancellando il potere di piccole aristocrazie abituate a gestire le istituzioni nel loro esclusivo interesse. La formula “un uomo, un voto” stava a indicare che ogni singolo va rispettato, ha diritti, merita di essere riconosciuto nella sua dignità. Se fino a quel momento lo Stato era stato soprattutto l’arbitrio di pochi a danno dei tanti, le democrazie erano pensate – certo in termini troppo ottimistici – come in grado di ampliare gli spazi di libertà.
L’Ottocento nazionale e socialista vedrà trionfare la visione mazziniana, ma oggi possiamo comprendere quanto sia ancora importante la lezione lasciataci da Cattaneo e da quanti con lui hanno provato a immaginare una società più liberale e federale di quella imposta dalla conquista regia del Nord e del Sud da parte dell’esercito piemontese.
Il compromesso della costituzione elvetica
Alcuni dei temi al cuore del conflitto politico e intellettuale che divise la società italiana a metà Ottocento si ritrovano in Svizzera, nonostante lì si debba fare i conti con tutta una serie di peculiarità. In particolare, dopo il Congresso di Vienna le comunità elvetiche avevano ricostruito il loro ordine pattizio, con un debolissimo potere centrale e, di conseguenza, esposto anche a forti pressioni da parte del vicino più potente: l’impero asburgico.
L’unità federale elvetica s’imporrà per varie ragioni. Da un lato, infatti, si riteneva importante superare le economie locali dando vita a un unico mercato interno, che eliminasse le barriere tra Vaud e Ginevra, tra Zurigo e Basilea. L’argomento in parte era fondato, anche se la storia ci insegna come la nascita di ogni Zollverein preluda alla costruzione di Stati nazionali che tendono a essere molto più protezionisti delle piccole realtà che si lasciano alle spalle.
In secondo luogo, gli orientamenti liberali e progressisti intendevano usare la forza coattiva di un nuovo potere centralizzato per difendere taluni diritti universali o, meglio, per imporre una loro lettura di tali diritti. I liberali-radicali si proponevano di operare una costante interferenza della facoltà di autogoverno dei cantoni considerati retrivi, specie in questioni come l’educazione o la relazione tra Chiesa e istituzioni civili. Dietro alle spinte culturali che portano alla costituzione federale c’è insomma una visione che vuole affrancare le aree più rurali e conservatrici, ma per fare questo punta su un potere di tipo nuovo. All’origine del mito interventista della costituzione c’è anche e soprattutto un duro conflitto – non dissimile a quello che si ebbe in altre aree d’Europa – tra massoni e gesuiti, tra positivisti e clericali, tra progressisti e conservatori, che almeno in parte si sovrappone a tensioni di antica data tra protestanti e cattolici.
In terzo luogo, e fu questo un tema di notevole importanza, grazie a un rafforzamento del potere comune si voleva ottenere una più ampia autonomia di fronte all’Impero asburgico. In particolare, Metternich aveva preteso l’espulsione dai cantoni svizzeri dei rifugiati italiani che erano stati coinvolti nei moti piemontesi del 1821 e aveva aspramente criticato la libertà di stampa vigente nei territori elvetici. La pressione fu tale che nel 1823 la Dieta adottò un Conclusum sulla stampa e sugli stranieri che impresse un orientamento liberticida ed ebbe il solo effetto di favorire il processo di “nazionalizzazione” degli intellettuali.
A molti risultò chiaro che senza una struttura unitaria la Svizzera sarebbe stata esposta a continue interferenze e intromissioni. La crisi del Sonderbund e la sconfitta dell’alleanza cattolico-conservatrice permetteranno ai radicali elvetici di definire i termini della loro vittoria grazie alla nuova Costituzione.
La carta fondamentale sarà in larga misura il frutto di scelte moderate: essa sarà quindi unitaria, ma anche elvetica. In altri termini, le varie realtà riusciranno a salvaguardare una parte significativa delle loro antiche libertà. L’enorme successo che, molto tempo dopo, il piccolo Paese alpino saprà conseguire sarà proprio il risultato di questa capacità di non sacrificare le logiche dell’autogoverno e della responsabilità sull’altare dell’unità.
I vincitori negheranno il diritto di secessione ai cantoni sconfitti e anche quando si tratterà di ratificare la costituzione, il voto non terrà in considerazione il fatto che in talune piccole comunità cattoliche ben il 90% dei voti sarà contrario, poiché si considereranno solo i risultati complessivi. E nonostante tutto ciò la Svizzera continuerà a preservare ampie autonomia cantonali e perfino comunali.
L’attualità del contratto politico e delle logiche associative
Molte delle idee del 1848, specie sulla sponda di Carlo Cattaneo e degli altri federalisti (perché certo erano avversi a ogni centralizzazione anche cattolici come Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini), preservano oggi tutta la loro attualità. E se allora a ispirare quei progetti era soprattutto la consapevolezza che non fosse possibile cancellare storie e culture con una semplice operazione d’ingegneria sociale, oggi quegli argomenti a favore del federalismo sono affiancati da molti altri.
È evidente, in effetti, che un’architettura istituzionale di tipo federale è ciò che più si coniuga con una società liberale. Sotto certi aspetti, il federalismo è il liberalismo “trascritto” a livello costituzionale, dal momento che se nel mercato prevalgono i liberi patti tra soggetti privati (che comprano, vendono, affittano ecc.), nelle federazioni si hanno accordi volontari tra comunità. Ogni realtà territoriale resta “padrona a casa sua” e muove dalla propria indipendenza per valutare se e quanto sia opportuno allearsi con altri.
Se quindi in Italia le cose fossero andate nel senso auspicato da Cattaneo, un secolo e mezzo fa avremmo costruito un’Italia basata sull’autogoverno: interconnessa, ma non unificata, probabilmente neutrale proprio perché federale (le realtà basate su accordi volontari tendono a restare al di fuori degli schieramenti internazionali, dato che lo schierarsi da una parte o dall’altra può comportare la fine dell’alleanza). A fine Ottocento le imprese del Nord non avrebbero potuto imporre politiche protezioniste (a danno dell’economia meridionale), mentre nel dopoguerra istituzioni come la Cassa del Mezzogiorno difficilmente avrebbero visto la luce. Un’Italia in stile elvetico con ogni probabilità non avrebbe nutrito sogni di colonie, sarebbe forse rimasta al di fuori dei conflitti mondiali, avrebbe evitato di nutrire paratissimi e assistenzialismi.
Nonostante ciò che si dice, va sempre ricordato che la storia si fa proprio con i “se”. Senza lo sforzo d’immaginare come sarebbero potute andare le cose se qualcosa fosse avvenuto diversamente, non si può capire la portata di questo o quel fatto. E ormai deve essere chiaro a tutti come il principale sbarramento sulla strada delle soluzioni più corrette e opportune per la penisola italiana, quelle derivanti da un assetto autenticamente federale e fondato sulla libera adesione, è venuto dal convergere degli interessi di un ceto politico rapace (quello sabaudo-piemontese) e delle mitologie di un’epoca che marciava a grande velocità verso logiche nazionaliste.
Come è bene espresso nei testi del massimo interprete del neofederalismo contemporaneo, il comasco Gianfranco Miglio, cogliere l’attualità del ’48 federale significa però anche comprendere quanto oggi i tempi siano mutati e, di conseguenza, quanto debbano essere diverse le soluzioni da trovare. I federalisti italiani d’allora pensarono che si dovesse orientare il Risorgimento salvaguardando le libertà locali: e in questo senso poteva essere ripreso il motto americano “ex pluribus unum”. Come si fece in Svizzera quando si realizzò una moderata unità, che non cancellava cinque secoli e mezzo di patti tra libere comunità.
Nel quadro italiano attuale, invece, uno spirito autenticamente cattaneano deve saper sfidare i miti secolari delle sovranità indivisibili e della sacralità dei confini. In questo senso, è urgente capire che senza comunità libere non ci può essere alcuna federazione e che quindi il motto va riformulato in tal modo: “ex uno plures”. Se a metà Ottocento vi furono visionari che, in ragione dei sentimenti patriottici e nazionalisti, ritennero necessario fondare l’Italia cancellando le diversità, ora si deve rovesciare quella logica: in nome di una restituzione di libertà e responsabilità alle diverse comunità territoriali che può soltanto favorire la rinascita civile di tutti.