Contributo al dibattito precongressuale di Nuova Costituente
di Alberto Lusiani
La nostra società non funziona bene. Negli ultimi trent’anni ha avuto la peggiore dinamica del reddito pro-capite di tutto il mondo e gli elettori hanno bocciato ogni maggioranza alle elezioni politiche nazionali. Abbiamo subito negli ultimi due anni – condizionati dall’epidemia Covid-19 – tra le peggiori perdite umane ed economiche di tutto il gruppo dei Paesi avanzati cui, per il momento, ancora apparteniamo. Oltre a questi insuccessi direttamente quantificabili, la nostra vita e le nostre libertà sono sempre più limitate e soggette a una regolamentazione statale sempre più minuziosa e pesante. Rispetto alla grande maggioranza dei Paesi avanzati, in Italia dare avvio a una nuova impresa costa di più, richiede più tempo e un numero maggiore di autorizzazioni, c’è minore libertà economica secondo gli indici sintetici pubblicati, l’attesa media di un permesso di costruzione è maggiore. Per contrastare l’epidemia Covid-19 lo Stato italiano ha anche imposto maggiori restrizioni di movimento e maggiori oneri e complicazioni per chi non accettasse di sottoporsi alle vaccinazioni indicate come appropriate e opportune.
Lo Stato italiano impone la tassazione teorica probabilmente più pesante di tutto il mondo, tassazione teorica che produce un gettito fiscale effettivamente riscosso ai vertici mondiali in rapporto al reddito inclusivo dell’economia sommersa, pur agendo su un tessuto economico arretrato e inadatto a forti prelievi fiscali a causa della presenza di una grande frazione di autonomi e piccole imprese. Lo scadenziario fiscale e le istruzioni per gli adempimenti fiscali sono, in Italia, probabilmente i più complicati, oppressivi e insulsi di tutto il mondo. Accumulando debito pubblico lo Stato italiano ha finanziato spesa pubblica corrente, addossando il pagamento dei creditori alle generazioni successive di contribuenti, senza il loro consenso, creando anche rischi non trascurabili di insolvenza per l’entità del debito accumulato rispetto al PIL. Lo Stato italiano ha anche promesso le pensioni più alte del mondo in rapporto ai salari e ai vincoli contributivi, usando uno schema Ponzi in cui non viene fatta né comunicata la stima del debito implicito determinata dalle pensioni dovute secondo la normativa vigente, rispetto al capitale accumulato grazie ai contributi (tale capitale è vicino allo zero perché è stato quasi tutto speso, e in molti casi è stato anche sprecato per acquistare immobili di lusso nel centro di Roma, affittati a equo canone o svenduti a politici e sindacalisti).
In cambio del livello elevato di risorse assorbite, e del controllo invasivo esercitato, lo Stato italiano eroga servizi spesso scadenti, particolarmente in tema di sicurezza, di rispetto dei contratti e dei diritti di proprietà e, più in generale, in tema di giustizia, e appare dedicare impegno e creatività principalmente nell’elaborare una varietà senza fine di bonus, sussidi, pensioni anticipate, rendite, appannaggi e assunzioni pubbliche con criteri spesso ridicoli, illogici e non giustificabili razionalmente, ma che appaiono principalmente coerenti con lo scopo di comperare consenso con la spesa pubblica.
Riassumendo, il nostro Paese ha una pessima dinamica economica, tasse estremamente elevate e massimo livello di regolamentazione e restrizione degli spazi di libertà dei cittadini. Non credo all’esistenza di complotti o piani preordinati contro l’Italia, o magari l’Occidente o altre categorie in cui l’Italia sia inclusa. Non mi sembra nemmeno che il dissesto possa essere attribuito sensatamente a uno o più partiti politici o schieramenti politici: tutti i politici al potere in Italia hanno collaborato al degrado in misura maggiore o minore. Ritengo invece che le cause primarie del declino economico italiano rispetto al resto del mondo siano il livello di tassazione e l’entità (oltre alla cattiva qualità) della regolamentazione e delle distorsioni imposte dallo Stato sull’economia e sugli spazi di libertà dei cittadini.
Ritengo quindi che il fallimento economico italiano sia analogo a quello sperimentato da Svezia e Nuova Zelanda nei decenni precedenti gli anni Novanta del secolo scorso, quando entrambi i Paesi hanno ampliato smisuratamente l’azione statale pubblica nell’economia, accumulando debiti pubblici progressivamente sempre meno sostenibili. Le classi dirigenti di quei due Paesi sono state capaci di cambiare il corso delle politiche dei decenni precedenti riducendo significativamente l’interposizione e il controllo dello Stato nell’economia, e rendendo l’azione pubblica meno distorsiva e più neutrale, quindi liberale, rispetto all’attività economica privata, avviando una grande crescita dell’economia e del benessere nei decenni successivi. Un processo simile di riduzione del perimetro dello Stato, che ha propiziato una migliore crescita economica, è avvenuto anche negli anni Ottanta in Inghilterra, con Margaret Thatcher e (in misura minore e viziata dall’aumento del debito) negli USA con Ronald Reagan. L’insuccesso economico dei Paesi del comunismo reale, seguito da una grande crescita economica per quelle nazioni che hanno adottato ordinamenti politici meno invasivi e oppressivi della libertà individuali, è un altro esempio dei benefici ottenuti, anche se in contesti meno simili all’Italia rispetto ai primi quattro Paesi indicati.
Seguendo quanto scrivono Adam Smith e James Buchanan, libertà di azione e competizione trasparente nel mercato sono i motori del progresso e della crescita economica, mentre la funzione dello Stato è quella di garantire sicurezza dalla violenza, rispetto dei contratti e diritti di proprietà e mercati funzionanti, usando poteri e competenze in regime di monopolio, ma astenendosi dalle attività economiche realizzabili in regime di competizione nel mercato ed evitando di distorcere il funzionamento del mercato stesso. Lo Stato ha un potere monopolistico di regolazione, tassazione e spesa ed è cruciale capire che questo potere non viene limitato e corretto dalla competizione nel mercato, come avviene per l’attività economica privata, ma viene invece limitato sostanzialmente da due argini (cfr. F. Fukuyama, Origini dell’ordine politico): la cultura dello Stato di diritto (rule of law), che prescrive che l’azione statale pubblica sia limitata dalle libertà dei cittadini e al loro servizio, e il giudizio degli elettori in periodiche elezioni (accountability). In Occidente si è sviluppata, con un secolare processo storico, una forma particolare di cultura dello Stato di diritto, secondo cui esistono, e hanno importanza primaria, i diritti naturali individuali di libertà di scelta, pensiero e azione (e quindi anche la responsabilità individuale di agire correttamente o peccare), e l’unica, o almeno primaria, giustificazione dello Stato è garantire nel modo migliore queste libertà. Se manca – o è di scadente qualità – una cultura condivisa che stabilisca che lo Stato deve essere limitato e al servizio dei cittadini, fallisce anche l’argine provvisto dalla democrazia delle periodiche elezioni, perché (come spiega bene J. Buchanan) è naturale e umano che chiunque abbia in ogni momento il potere dello Stato lo usi in misura maggiore o minore per comperare consenso, innescando quindi fatalmente una spirale al rialzo, in cui tutte le parti politiche ampliano l’azione statale pubblica per acquistare il consenso necessario alla rielezione. L’aumento dell’intermediazione statale è l’esito più probabile, perché il modo più efficace di comperare consenso è effettuare spesa pubblica concentrata e micro-regolata a beneficio di una moltitudine di clientele e interessi diversi, che sviluppano quindi interesse concentrato a votare una determinata parte politica, ricavando le risorse necessarie tassando in maniera diffusa e generale, per minimizzare la reazione negativa conseguente, diffusa e non concentrata.
Un punto importante, correttamente sottolineato da J.Buchanan, è che in assenza di una cultura dello Stato di diritto, anche se in presenza di democrazia perfettamente funzionante, può facilmente risultare conveniente a chi governa, allo scopo di conservare consenso e potere, tassare o altrimenti opprimere senza alcun limite minoranze che possano essere territorialmente localizzate oppure altrimenti operativamente selezionate (per esempio per l’appartenenza a una fede religiosa) e più o meno chirurgicamente depredate. Lo Stato italiano realizza il massimo livello mai osservato nel mondo di sottrazione di risorse da una minoranza territorialmente localizzata (i residenti fiscali della Regione Lombardia) per finanziare quello che è anche il massimo trasferimento assistenziale di risorse pubbliche a favore di una parte del territorio statale (il Sud Italia). Anche la sottrazione di risorse subita da Veneto ed Emilia Romagna può essere considerata ineguagliata in tutto il mondo, eccetto il caso, appunto, della Lombardia. Questo insieme di record negativi dell’Italia concorre a determinare la peggiore dinamica economica di tutto il mondo, dinamica che risulta sostanzialmente identica in tutte le macroregioni (Nord, Sud e Centro). Determina anche l’inesorabile marcia del Sud Italia nel diventare la macroregione meno produttiva, con minore occupazione legale e più dipendente dai trasferimenti pubblici tra tutti i Paesi avanzati. In particolare tutti i Paesi ex-comunisti dell’Europa orientale o hanno già superato oppure sono ben avviati a superare il PIL pro-capite del Sud Italia.
Riassumendo, ritengo che l’assenza o estrema debolezza di una cultura forte e condivisa dello Stato di diritto sia la causa prima dell’ampiezza e della cattiva qualità dell’interposizione statale pubblica in Italia e quindi della estremamente scadente dinamica economica dell’Italia. La presenza di uno Stato unitario centralizzato, che include territori diversi per storia, produttività e capitale umano e sociale, fornisce “l’occasione che fa il politico italiano ladro”, provvedendo un incentivo concreto a sovratassare il Nord produttivo per comperare consenso con la spesa pubblica nel Sud meno produttivo. Questo trasferimento produce un bilancio positivo in termini di consenso, perché la sottrazione di risorse da un numero minore di contribuenti con maggiore reddito (un fattore circa due volte maggiore nel Nord rispetto al Sud) fa perdere meno voti di quanti ne vengano comperati trasferendo le stesse risorse verso un numero maggiore di destinatari con reddito inferiore. L’osservazione di questo meccanismo è stata fatta, a mia conoscenza, per la prima volta nel 1889 da Filippo Turati, che osservava correttamente come il Sud fosse, già allora, tendenzialmente filo-governativo, mentre il Nord era tendenzialmente contrario alla maggioranza di governo centrale. È opportuno qui sottolineare un punto quasi mai adeguatamente evidenziato riguardo i divari tra Nord e Sud Italia. La differenza di produttività tra un occupato regolare a Nord e uno a Sud è solo del 20%. Come è possibile allora che la differenza di PIL pro-capite tra Nord e Sud sia un fattore 2? È possibile per effetto delle politiche dello Stato centrale, che tendono a eguagliare i compensi, provvedono sussidi che vengono revocati in caso di occupazione regolare e introducono altre simili distorsioni economiche, che abbassano la percentuale di occupati regolari nel Sud di 20 punti percentuali rispetto al valore nel Nord. Se la percentuale di occupati fosse la stessa, il Sud avrebbe PIL pro-capite inferiore solo del 20% a quello del Nord. In termini di reddito disponibile al Sud, i trasferimenti pubblici lo aumentano del 20% rispetto al reddito prodotto localmente. Se venissero rimosse le distorsioni dell’intervento pubblico e la percentuale degli occupati meridionali si alzasse ai livelli del Nord, il reddito disponibile nel Sud sarebbe uguale, e probabilmente superiore, al reddito disponibile oggi dopo i trasferimenti pubblici, ma eliminando ogni sudditanza e necessità di ossequio, da parte dei meridionali, verso la maggioranza che governa lo Stato centrale.
La perdita graduale della forza della cultura dello Stato di diritto non è un problema unicamente italiano, si sta verificando anche altrove in Occidente pur se con intensità minore dell’Italia, che è un territorio storicamente alla periferia della cultura politica occidentale. Anche altrove, nei Paesi avanzati, spesso aumenta l’interposizione statale pubblica nell’economia, aumenta il debito pubblico esplicito (contabilizzato a bilancio) e implicito (pensioni), e la crescita economica degli ultimi tre decenni non è misera come in Italia, ma spesso significativamente inferiore ai decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Il movimento del Tea Party può essere considerato una reazione alla progressiva perdita dei principi dello Stato di diritto limitato, secondo i quali sono stati fondati gli Stati Uniti d’America.
Cosa può e deve fare Nuova Costituente?
A mio parere NC deve, almeno inizialmente, fare attività di elaborazione e promozione culturale:
– recuperare e promuovere la cultura dello Stato di diritto limitato, sostenere le politiche che la realizzano e quindi riduzione del perimetro dello Stato, riduzione della tassazione, riduzione dell’ingerenza e delle distorsioni imposte dallo Stato all’iniziativa economica privata;
– sostenere una riorganizzazione dello Stato in cui
1. il potere di tassazione e spesa pubblica dello Stato centrale sia devoluto se possibile interamente a Regioni e/o Province, per ridurre gli incentivi esistenti per chi governa al centro di trasferire risorse da Nord a Sud per comperare consenso, nuocendo all’economia e al benessere
2. sia dato ai territori il diritto di uscita (opt-out, secondo la terminologia di J. Buchanan) dall’ordine politico dello Stato italiano, per limitare (o eliminare in caso di uscita) l’espropriazione da parte dello Stato delle minoranze produttive territorialmente localizzate per finanziare l’acquisto di consenso con la spesa pubblica.
Possibili alleati naturali al recupero e alla promozione della cultura dello Stato di diritto limitato sono gli appartenenti al movimento del Tea Party, i libertari, i liberali e i liberisti. La reazione contro le restrizioni eccezionali, e contro la campagna di vaccinazione quasi obbligata che lo Stato italiano ha adottato per contrastare l’epidemia Covid-19, è motivata anche da una cultura ancora viva del diritto alle libertà individuali e alla resistenza, contro la prevaricazione del potere statale pubblico. Per questa componente di motivazione, tale reazione va sicuramente condivisa e sostenuta, senza però sottoscrivere o appoggiare alcuni elementi negativi spesso a essa associati: il rifiuto o stravolgimento delle evidenze scientifiche, l’indisponibilità ad accettare compromessi temporanei e limitati che siano adeguatamente giustificati su base statistica, l’attrazione per sistemi politici che hanno solo una superficiale apparenza di minore intrusione nella vita dei cittadini ma che, in realtà, sono estranei alla cultura occidentale originaria dello Stato limitato e al servizio dei suoi cittadini e hanno un impianto statale illiberale e autoritario.
L’evidenza razionale a favore dello Stato di diritto limitato è abbondante. I due esempi canonici di Stati di diritto limitati sono l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America, che dal 1800 circa in poi si sono succeduti come Stati egemoni nel mondo. Gli Stati Uniti in particolare sono stati esplicitamente fondati per essere e rimanere uno Stato limitato, e sono diventati lo Stato economicamente e militarmente egemone di tutto il mondo. Purtroppo nel tempo, specie per superare crisi economiche e guerre, gli Stati Uniti hanno perso buona parte delle caratteristiche di Stato ultra-limitato dei tempi della fondazione, il che è stato però causa determinante di progresso e successo. Tutte le esperienze di Stati meno limitati, più autoritari, o totalitari nelle varianti nazional-socialiste e comuniste, hanno perso il confronto economico e militare prima con l’Inghilterra e in seguito con gli Stati Uniti. È abbondante anche l’evidenza dell’insuccesso degli Stati non limitati, per esempio Argentina e Venezuela peroniste, oppure le esperienze di comunismo reale in Russia e Cina (in quest’ultimo caso in particolare nella fase della rivoluzione culturale).
Gli alleati naturali per la devoluzione del potere e per il diritto di uscita dallo Stato italiano sono tutti i movimenti federalisti, autonomisti, indipendentisti. Anche in assenza di cultura dello Stato di diritto limitato, le piccole dimensioni e la molteplicità delle entità politiche autonome o indipendenti favoriscono la crescita economica grazie alla competizione istituzionale, economica (e in passato anche militare) tra territori, come osserva per esempio David Landes a proposito del Giappone del 1600 e 1700.
Riguardo ai benefici di un ordinamento politico che permetta il diritto di uscita è interessante leggere un breve saggio di J. Buchanan, Federalism as an Ideal Political Order and an Objective for Constitutional Reform, in cui l’autore propone di introdurre alcuni elementi di concorrenza di mercato nel funzionamento dello Stato grazie a un ordinamento federale opportunamente disegnato. Una parte significativa del potere di tassazione e spesa pubblica viene assegnata ai territori federati – in Italia Regioni o Province – lasciando al potere centrale della Federazione il potere di assicurare un mercato libero e funzionante esteso a tutta la Federazione. Cittadini e imprese devono rimanere liberi di trasferirsi nell’Ente federato preferito (diritto di uscita individuale), premiando i territori meglio amministrati. Allo scopo di limitare l’abuso di potere della Federazione, deve essere consentito agli Enti, o a gruppi di Enti federati, di recedere dal contratto costituzionale federale e formare una comunità politica indipendente (diritto di uscita di un territorio).
Secondo J. Buchanan:
If the federal (central) government, for any reason, should move beyond its constitutionally dictated mandate of authority, what protection might be granted – to citizens individually or to the separate states – against the extension of federal power? The exit option is again suggested, although this option necessarily takes on a different form. The separate states, individually or in groups, must be constitutionally empowered to secede from the federalized political structure, that is, to form new units of political authority outside of and beyond the reach of the existing federal government. Secession, or the threat thereof, represents the only means through which the ultimate powers of the central government might be held in check.