Nella critica alla sovranità assoluta e nelle conseguenze che ne venivano derivate stava, e sta a mio parere tuttora, l’importanza teorica del movimento federalista. Dietro questa critica c’è un’idea precisa, e sinora non smentita, della guerra e delle sue cause, e di conseguenza dei rimedi necessari per ottenere una pace stabile … Non vi è stata nel secolo scorso dottrina politica che non abbia avuto la sua teoria della guerra e rispettivamente della pace: la dottrina liberal-liberista vedeva la principale causa delle guerre nella politica economica mercantilistica degli Stati assoluti e il rimedio nell’apertura delle frontiere al commercio internazionale (si tratta in fondo anche in questo caso di una limitazione, se pur proveniente dalla società civile, alla sovranità assoluta dello stato); la dottrina democratica riteneva che l ’unica responsabilità delle guerre, o per lo meno delle guerre europee degli ultimi secoli, fosse il dispotismo, l’essere il sommo potere non controllato dal basso, e credeva fermamente che una volta che il potere fosse nelle mani del popolo, le guerre sarebbero cessate d’incanto (quale interesse avrebbero avuto i popoli ad ammazzarsi tra di loro?); uno dei princìpi comuni a tutte le correnti del pensiero socialista fu che le guerre fossero il prodotto del sistema capitalistico, più in generale di un sistema economico che era fondato sulla esaltazione della proprietà individuale fomentatrice di discordie, e che le guerre sarebbero scomparse quando un nuovo sistema fondato sulla proprietà comune per lo meno dei mezzi di produzione avrebbe segnato il trionfo dell’internazionalismo proletario. Definita la guerra come conflitto tra stati sovrani, la cui soluzione è affidata alla forza, i liberisti vedevano prossima una società internazionale in cui sarebbero rimasti gli stati e i loro conflitti ma non l’esigenza di ricorrere alla forza per risolverli (di qui la grande importanza data all’arbitrato internazionale, cui rivolsero le loro speranze le leghe pacifistiche nella seconda metà del secolo scorso); i democratici erano convinti che sarebbero rimasti gli stati ma sarebbero venute meno le ragioni tra stati fondati sulla sovranità popolare di ogni conflitto; infine i socialisti prevedevano e predicevano che in una società socialista tutta dispiegata sarebbero addirittura scomparsi gli stati. Mai previsioni si sono dimostrate più fallaci, almeno da quel che possiamo constatare se pure col senno di poi nell’anno di grazia 1973: pur non ipotecando il futuro, non possiamo fare a meno di osservare che l’unico pacifismo realistico che l ’attuale situazione internazionale ci consente è quello che radica le proprie speranze non nella scomparsa ma nell’equilibrio del terrore (cioè in un terrore moltiplicato). Ciò che le dottrine pacifistiche del secolo scorso avevano dimenticato a causa della loro fiducia nell’immancabile progresso era che la ragion sufficiente delle guerre, cioè del fatto che un conflitto tra stati può trasformarsi in conflitto armato, non è una certa politica economica piuttosto che un’altra, un certo tipo di governo, un certo sistema sociale, ma il fatto che la società internazionale è una società in cui non è avvenuto quel processo di concentrazione di potere e di monopolizzazione della forza coattiva che ha dato origine allo stato, cioè è una società composta di enti che detengono ciascuno il monopolio del potere coattivo nell’ambito del proprio territorio e nei riguardi degli altri stati, tra i quali quindi i rapporti in ultima istanza sono rapporti di forza. La dottrina federalistica si distingue rispetto alle altre dottrine pacifistiche per la consapevolezza che, sino a che durerà un sistema internazionale di stati sovrani fra i quali i rapporti sono in ultima istanza rapporti di forza, la guerra, cioè la soluzione di un conflitto attraverso la forza, è possibile, perché in alcuni casi lo stato nella sua sovranità illimitata ritiene, e nessuno se non la maggior forza dell’altro gli può impedire di ritenere, che sia l ’unica soluzione, e per il fatto di essere l ’unica, cioè di essere presa in stato di necessità, sia anche giusta. Non c’è dubbio che per quel che riguarda il problema delle cause della guerra il federalismo si trovi nel solco del pensiero politico realistico che da Machiavelli a Hobbes, da Spinoza a Hegel, da Marx a Meinecke o a Max Weber ha demitizzato la concezione idealizzante dello stato – lo stato come societas perfecta che provvede al bene comune dei suoi membri – per considerarlo, analizzarlo e qualche volta anche adorarlo come la massima manifestazione in terra di una potenza irresistibile. In questo senso il federalismo non è propriamente una dottrina pacifistica, non tanto perché a rigore, se è valido il suo sillogismo – la causa delle guerre è la sovranità assoluta, per abolire le guerre bisogna limitare la sovranità, la conseguenza necessaria dovrebbe essere non la federazione europea ma la federazione mondiale –, ma perché la pace non viene considerata in seno al movimento federalista sin dai suoi inizi come il fine ultimo ma come il presupposto, la conditio sine qua non, per la realizzazione di altri fini considerati come preminenti, quali la libertà, la giustizia sociale, lo sviluppo economico … Lo dice chiaramente il Manifesto di Ventotene: «Un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto» …
Nessuno oggi può fare la storia della Resistenza senza tener conto della prospettiva federalistica. Non tutta la resistenza fu federalistica. Ma certo il federalismo fu un denominatore comune a vari gruppi che alla guerra di liberazione diedero vita … Proprio attraverso l’esperienza della Resistenza esso si trasformò in programma d’azione. È stato notato giustamente che l’antifascismo democratico, prima di essere messo alla prova della lotta armata, cioè di una guerra che si combatteva su tutti i fronti d’Europa, e aveva condotto in pochi anni all’asservimento del vecchio continente al dominio hitleriano, si era generalmente posto il problema del dopo fascismo come problema di rinnovamento e di risanamento dello stato nazionale, accusato di antiche e recenti colpe storiche, come il compimento di una rivoluzione mancata. Il federalismo nasce invece nel crogiuolo della lotta di liberazione, e pertanto è una componente essenziale, una parte viva della storia della resistenza e ne ha seguito l’alterna fortuna. I motivi ispiratori della Resistenza europea si possono disporre su tre livelli: secondo che si consideri come guerra di liberazione nazionale in nome dell’indipendenza, come guerra contro il fascismo e in genere contro il dispotismo in nome della democrazia, come guerra per un nuovo assetto sociale contro ogni tentazione di restaurazione dell’antico regime. L ’ideale federalistico si pone su questo terzo livello: la resistenza non come restaurazione ma come innovazione. La resistenza che deve insieme chiudere ed aprire, distruggere per costruire, essere negazione della negazione non in senso formale ma in senso dialettico. Che non deve limitarsi a vincere il presente ma deve inventare il futuro. Il federalismo fu, ed è tuttora, una di queste invenzioni storiche. Per questo è legato a quel momento creativo della storia che fu la Resistenza europea. Una delle più alte coscienze della resistenza italiana, Piero Calamandrei scrisse: «Tutte le strade che un tempo conducevano a Roma conducono oggi agli Stati Uniti d’Europa».
Già in Comunità europee, N. 11 – Novembre 1973 – Anno XIX