Milano, Assago – 18/19 giugno 2022
di Luigi Marco Bassani
Ciò che sta accadendo in Italia da oltre tre lustri, mostra come queste aree siano in anticipo rispetto al declino dell’Occidente. Se le questioni del welfare, di uno stato sociale ormai incancrenitosi in una redistribuzione territoriale selvaggia che crea un debito sovrano chiaramente insostenibile, appaiono un guazzabuglio di problemi nel quale sembra impossibile districarsi, in realtà è solo perché vi è chi ha interesse a presentare la questione Italia come irresolubile. Dall’analisi della crisi italiana possono invece uscire proposte concrete e si debbono distinguere quelle fantasiose da quelle realistiche.
Da un punto di vista marxista, il nostro presente appare davvero ben oltre il paradosso. Stiamo infatti assistendo a un impazzimento dei governi: i vari comitati d’affari delle borghesie nazionali (così Marx chiamava i governi) si stanno dannando proprio per distruggere l’apparato produttivo della borghesia stessa. Il che implica un taglio del ramo sul quale siamo seduti che né Marx, né Engels avrebbero mai nemmeno immaginato.
La dimensione parassitaria – vale a dire il carattere distruttivo della ricchezza (ossia del prodotto della cooperazione fra gli uomini – che gli apparati governativi mostrano da sempre, è proprio la grande assente della riflessione politica occidentale. L’Europa nel corso dell’età moderna ha elaborato tutte le categorie concettuali dello e sullo Stato, ma non è riuscita a dotarsi di una visione realistica del potere.
Io non sono un indipendentista, né un unionista, ma ritengo che tutte le produzioni umane, e segnatamente quelle istituzionali, vadano sottoposte al vaglio delle generazioni, ad un’analisi pacata e razionale di costi e benefici. La creatura politica di nome Italia non è mai stata analizzata criticamente, né quando era il sogno di “avvocati senza cause”, né oggi che è ormai l’incubo di tutte le popolazioni che vivono in questa cornice istituzionale. Viviamo in uno Stato che non soddisfa nessuno, neanche i beneficiari netti della più forsennata redistribuzione territoriale della storia umana, ma appare sovraccarica di passioni, proiezioni mitopoietiche, martirologi civili, morti, guerre, martiri di Belfiore, fratelli Bandiera, fratelli Cervi e le loro mamme.
L’Italia tende ad espandersi (s’allarga, direbbero a Roma) anche molto prima di diventare un’unità politica. Parte da una penisola della Calabria meridionale nel VI sec a.C. e poi in epoca romana si estende prima fino all’Arno e al Rubicone, poi nel primo secolo dell’era cristiana anche a sud delle Alpi. Con la divisione di Diocleziano dell’Impero in dodici “diocesi”, nel 297, quella “italiciana” arriva addirittura, tracimando dai suoi confini naturali, a comprendere parte della Pannonia (fino alla Sava) e del Norico (fino al Danubio). Figure letterarie e pensatori di non poco conto se ne invaghiscono in vario modo nei secoli, da Petrarca a Machiavelli, fino a Goldoni, Rosmini e Manzoni.
Quella dell’Italia rimane però una raffigurazione piuttosto vaga, che riguarda i dotti, Alfieri, Foscolo, il popolino non se ne cura. Alle soglie dell’Ottocento entra nel dibattito politico e lo infiamma, per effetto dei numerosi progetti di unificazione che vengono elaborati e proposti.
Il primo grandissimo laboratorio teorico-politico è rappresentato dal concorso bandito dall’amministrazione franco-lombarda, a Milano nel 1796: “Quale dei governi liberi meglio conviene alla felicità dell’Italia?” Il concorso del 1796 fu vinto dall’economista piacentino Melchiorre Gioia che auspicava un’Italia libera e indipendente, repubblicana e democratica, indivisibile per tradizioni storiche e culturali, lingua e geografia. In breve, ciò che si aspettavano gli amministratori post giacobini francesi. «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor» come scriverà Manzoni in Marzo 1821. Però gli storici del Novecento, andando a rileggere molti dei saggi che furono redatti dagli autori politici del nord, rimasero assai stupiti del fatto che la maggioranza dei candidati aveva un’idea assai ristretta dell’Italia (Lombardo-Veneto più Toscana ed Emilia) e soprattutto la più gran parte auspicava una confederazione di Stati indipendenti. Il saggio di Giovanni Antonio Ranza, Vera idea del federalismo italiano, 1796, ci fa comprendere quanto un assetto istituzionale libero fosse avversato fin dalla preistoria del Risorgimento.
Il federalismo … è lo stesso che l’orco e la befana presso i fanciulli … un andazzo di allarme, uno spauracchio di moda, contro il quale si grida e si fischia. La befana e l’orco dispaiono presso i fanciulli con la fiaccola della ragione. Lo stesso avverrà, io spero, del federalismo … allorché se ne avrà una vera idea. … L’Italia, tutto al contrario della Francia, è divisa in molti Stati da parecchi secoli; Stati diversi di costumi, di massime, di dialetto, d’interessi; Stati che nutrono (mi rincresce dirlo!) vicendevolmente un’avversione gli uni degli altri. Ora il voler unire questi Stati ad un tratto con una rigenerazione politica in un solo Governo, in un solo Stato, con una sola costituzione, è lo stesso che cercare il moto perpetuo e la pietra filosofale.
Mezzo secolo dopo, nel 1848 cambia la prospettiva. Ed è un uomo a incarnare questo mutamento perenne dell’unificazione, Giuseppe Mazzini. Muovendo da un recupero lessicale e dalla riattribuzione del nome Italia all’intera penisola, isole comprese, Mazzini inventa tutti gli elementi più importanti e riconoscibili della costruzione nazionale, che diventa spazio politico e geografico, con il “sacro confine” allo spartiacque alpino, con l’utilizzo del tricolore giacobino e l’ufficializzazione del nome Italia. Il 1848 di Carlo Cattaneo era di ben diversa ispirazione: nel Programma del Cisalpino, 17 marzo 1848 affermava:
Queste patrie tutte libere, tutte armate, possono vivere l’una accanto all’altra, senza nuocersi, senza impedirsi. Anzi, nel nome d’un principio comune a tutte, possono avere un pegno di reciproca fede, un’assicurazione invincibile contro ogni forza che le minaccia.
Il suo modello di federalismo era liberale ed elvetico. Ma se il dibattito era su quale forma per un’Italia unificata, l’opzione mazziniana-sabauda risulterà vincente. Conquista regia e ferreo centralismo, nella falsa alternativa fra forma repubblicana o monarchica.
Da allora l’Italia vive una sorta di naufragio nell’unità. Se è pur vero che una certa cultura liberale permeava molte figure del Risorgimento, con l’affermarsi della “questione nazionale” i temi liberali hanno lasciato il posto a spinte organicistiche. Il 1848 vede la vittoria dell’idea di popolo a scapito di quella di Costituzione. Da allora il passatempo preferito degli intellettuali sarà un’interpretazione organicista e statalista della società, che naturalmente non poteva lasciar spazio a soluzioni di tipo federale.
L’idea di Costituzione fu spazzata via da quella di Nazione. Gli storici chiamano Stato liberale una realtà che illiberale e accentrata fin dalle sue origini. E le cause sono nel successo di un Risorgimento nazionalista e unificazionista che si trovò poi alle prese con una nazione impossibile da costruire. L’Italia si costituì quale Stato fortemente accentrato, nato sulla totale sfiducia verso le diverse comunità storiche, che temeva e contrastava le aspirazioni all’autogoverno un tempo del Mezzogiorno e oggi del Nord. L’Italia del 1861 contiene già sé molte premesse del successivo sviluppo. La cultura nazionale e sociale di Giuseppe Mazzini, con il suo mito dell’unità organica del popolo italiano, ha avuto la meglio sul pragmatismo, sulla tolleranza liberale e sull’ispirazione federalista di Carlo Cattaneo. Il liberalismo nazionale ha rigettato la lezione e gli ammonimenti dei federalisti sconfitti e si è illuso di poter garantire l’individuo anche in presenza di istituzioni accentrate, che non riconoscevano in alcun modo il diritto delle comunità politiche a decidere del proprio futuro.
Ogni opposizione politica e sociale è stata ridotta al rango di banditismo, alla spasmodica ricerca di un ordine legale all’interno del quale il controllo sociale minuzioso esercitato dai prefetti, veri e propri “luogotenenti” del potere centrale, ha guidato quel processo di nazionalizzazione delle diverse comunità che è stato poi esaltato dalla dittatura fascista. Il fascismo non fu altro, per usare le parole di Piero Gobetti, che l’autobiografia della nazione: punto di arrivo di un processo centralista ed illiberale che aveva avuto proprio nei “patrioti” i padri fondatori.
Pur essendo un fenomeno ampiamente settentrionale (e pur manifestando anche qualche iniziale simpatia federalista) il fascismo diventerà – non appena giunge al potere – il più feroce difensore dell’unità nazionale. Sotto la cappa del regime scompare ogni riconoscimento di differenza: la Carta etnografica pubblicata nel 1940 dalla Consociazione Turistica Italiana mostra una penisola uniformemente azzurra con ampie propaggini dello stesso colore in Dalmazia, Nordafrica, Corsica. Furono cancellate per decreto anche le minoranze alloglotte.Mussolini nel 1910 descriveva Roma come
Città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e di burocrati, Roma … non è il centro della vita politica nazionale, ma sibbene il centro e il focolare d'infezione della vita politica nazionale. … Enorme città-vampiro che succhia il miglior sangue della nazione.
Ma nei decenni a venire il mito di Roma sarà quello che cementerà l’intero esperimento mazziniano di educazione nazionale fascista. Il fascismo enfatizza il mito di Roma che diventa elemento portante dell’identità italiana. È piuttosto interessante sottolineare come il primo fascismo fosse invece fortemente permeato di antiromanità e come molti siano scesi a Roma accettando il dogma dell’unità solo proprio con l’idea di padanizzare la capitale e l’Italia. Come sostiene lo storico Francesco Bartolini, i fascisti delle origini intendono la “marcia su Roma” come una “marcia contro Roma”.
L’esaltazione fanatica dell’idea di Patria e l’invenzione per l’Italia di un destino da potenza (militare e coloniale) hanno condotto il paese in tragiche vicende che hanno causato innumerevoli lutti e tragedie e aperto la strada all’avvento di regimi sempre più dispotici. Nella storia italiana, il fascismo non è stato un episodio fortuito, una parentesi, ma l’esito conseguente di una vicenda politica e istituzionale che ha progressivamente marginalizzato i singoli e le comunità. Si tratta del cuore della storia italiana, del baricentro di un’unificazione impossibile da gestire con gli strumenti della libertà.
La lunga marcia dello statalismo inizia con un’unificazione “nazionale” impossibile, prosegue con una vera e propria “marcia” su Roma e si conclude ai nostri giorni con il fallimento del Paese sotto il giogo del debito, della spesa pubblica, di una dittatura sanitaria e di una catastrofe energetica. L’Italia della partitocrazia e della corruzione elevata a sistema non ha mai rotto i ponti con lo statalismo e il centralismo di questa lunga e consolidata tradizione. Quella dell’ultimo quarto di secolo ha scientemente deciso di respingere qualunque richiesta di autogoverno (si pensi ai referendum nazionali del 2006 e regionali del 2017: in entrambe i casi lombardi e veneti hanno chiaramente votato per devoluzione o autonomia).
Il fabulismo italiano produce narrazioni mirabolanti su debito pubblico, tassazione, welfare, istruzione. Il governo viene invariabilmente presentato come il toccasana per ogni male. La mitopoiesi italiana è sempre all’opera e quando i martiri di Belfiore e la mamma dei Fratelli Cervi appaiono un sbiaditi ecco che il racconto si arricchisce di nuovi capitoli fantasmagorici. Siamo una nazione, tutti ci aiutiamo, i percettori di tasse, in realtà, arricchiscono i produttori di tasse … L’Italia è un’immensa maschera che impedisce la comprensione dell’esistente. Lo era prima che esistesse, lo è stata durante il suo apogeo fascista e lo è sommamente nel corso del suo inabissamento.
Nuova Costituente si inserisce su quelli che sono i disastri prodotti dall’unificazione, dal centralismo, dalla selvaggia redistribuzione territoriale. Oggi viviamo anche in un tessuto civile e sociale disastrato. Mentre l’economia è al collasso, figuri ormai talebanizzati di cui si scorgono solo occhi impauriti, aprono con guanti usa e getta il borsellino. L’inferno sono gli altri, diceva Sartre. Dall’inizio della pandemia nessun motto appare più appropriato. Si può tranquillamente constatare che la folle risposta del governo alla COVID è stato l’ultimo chiodo sulla bara di una convivenza appena civile sulla penisola.
Popolazioni note per la loro laboriosità e che un tempo si scambiavano informazioni chiedendo «lei cosa produce?» sono solo in attesa della carità bruxellese, di un piano resiliente che in realtà è solo un piano inclinato verso il terzo mondo indifferenziato che ci attende. Eppure occorre essere chiarissimi: mettete insieme centralismo e assistenzialismo, dittatura palese o burocratico-amministrativa, due aree di un non paese quali quelle esistenti, la più grande ubriacatura di marxismo teorico della storia nel corso del Novecento, mescolate con due parti di classe “digerente” del nulla e avrete inevitabilmente un sottoprodotto di nome Italia.
Un’istituzione è in crisi quando crea più problemi di quanti non ne risolva. La crisi diventa risolutiva quando questo bilancio è noto a tutti. Non so se lo Stato sia fallito ovunque. Nato come soluzione moderna al problema dell’ordine politico, almeno qui non garantisce più ordine, ma fomenta il disordine. È l’incarnazione storica di un potere che ostacola le nostre vite, le nostre imprese e i nostri piani di vita. La putrefazione delle istituzioni statuali si incontra con l’immarcescibile tentativo di forgiare un’unificazione impossibile. La frustrazione nazionale si riverbera sul quadro ordinamentale. Lo Stato italiano è l’apoteosi di ogni possibile statualità fallimentare.
Tutti sanno che i governi non producono ricchezza, ma secondo alcuni lo Stato produce coesione sociale, ci difende dalle aggressioni esterne e da quelle dei privati in casa. No. È la cooperazione fra gli individui, le famiglie, la società che si è costituita in secoli di storia ad essere il vero fattore di coesione. Ed è la creatività dei singoli ad avere portato ad una moltiplicazione di un fattore trecento della ricchezza prodotta. Ma anche se lo Stato fosse il cemento della coesione sociale: quanto diavolo ci costa? Ormai oltre il 60 percento della ricchezza prodotta ogni anno viene fagocitata da spesa e debito.
Lo Stato non produce ricchezza, ma la sposta dalle tasche di alcuni per metterla nelle tasche di altri. L’azione del governo crea necessariamente due gruppi contrapposti: produttori di tasse e consumatori di tasse. La politica è chiamata ad inventare quelle metafore organiciste che possano nascondere tutto ciò. Come diceva Bastiat quasi due secoli fa, “lo Stato è la finzione secondo la quale tutti credono di poter vivere alle spalle di tutti”.
Da noi, il debito, il suo mantenimento e la rapina delle regioni produttive hanno fatto saltare la possibilità della finzione. Oggi è impossibile credere di esser parte di una ragnatela di relazione statuali dalle quali guadagniamo e perdiamo un po’ tutti. Si sa perfettamente chi paga e chi riceve, chi tiene i cordoni della borsa e chi la borsa la riempie e basta. Vi è una “lotta di tasse” fra chi esige più welfare e “diritti di cittadinanza” e chi sa perfettamente che deve pagare tutto ciò.
Lo Stato, sorto per rispondere alla domanda di ordine politico è diventato lo strumento del parassitismo politico. La particolarità, unica al mondo, è che qui l’area del parassitismo e quella produttività seguono linee geografiche chiare e distinte. Le regioni sono istituzioni deboli, ma saranno costrette a dover gestire tutto.
L’alternativa è fra centralizzazione e decentramento. Ma non più all’interno del quadro nazionale. Bruxelles o l’indipendenza di ogni popolo, regione territorio. Non c’è alcuna soluzione nazionale, negoziata e condivisa. Le classi dirigenti europee – come il suicidio della green economy rende chiaro a tutti – hanno imboccato una serie di strade dalle quali non vi è ritorno.
La questione è semplicissima. Si uscirà da questo stallo politico e dal declino economico solo in due modi: o per mezzo di un trasferimento di sovranità agli organismi internazionali – la troika – oppure attraverso un passaggio di sovranità alle varie popolazioni italiche.
I problemi non possono essere risolti nazionalmente a causa della contrapposizione geografica, delle politiche clientelari e assistenziali e dell’inerzia colpevole dei produttori. La demarcazione geografica del problema Italia offre però anche il destro per la sua soluzione. La gabbia deve essere spezzata, perché è una gabbia che non giova a nessuno: il Mezzogiorno si appresta a trovarsi fra pochissimo “a Sud di nessun Nord”.
Quella di Nuova Costituente è una vera e propria scommessa con la storia. Non siamo altro che un gruppo di amici che rimesta le stesse idee da molti lustri. Pestiamo apparentemente acqua nel mortaio. Ma adesso rilanciamo.
La vera scommessa è che Rousseau non avesse ragione quando sosteneva che alla lunga i popoli sono ciò che i governi li fanno essere.
Se effettivamente gli italiani fossero stati forgiati nel profondo da De Pretis-Giolitti-Mussolini-Andreotti-Craxi-Berlusconi la nostra scommessa sarebbe destinata al fallimento. Come la loro costruzione politica. E allora non vi sarebbe altro che fare per accelerare il declino, perché è meglio una fine orrenda che un orrore senza fine. La spiegazione ultima dell’estensione delle attività economiche in Occidente è lo scarto tra l’omogeneità dello spazio culturale e la pluralità delle unità politiche che se lo dividono. L’espansione della libertà trae le sue origini e la sua ragion d’essere dall’anarchia politica. Al sorgere dell’età moderna vi erano circa 500 entità semi autonome e semi sovrane. Le opportunità del moderno sono state colte grazie alla frammentazione politica, questa è ormai una tesi condivisa fra gli storici dell’economia. In estrema sintesi, l’unità culturale è un’ottima cosa, ma l’unificazione politica è la ricetta per il disastro. Il problema dell’Italia non può essere affrontato, perché l’Italia non ha problemi, è il problema.