Qual è l’essenza dell’idea federalista? Il filosofo svizzero Denis de Rougemont scriveva: «Come tutte le grandi idee, l’idea federalista è molto semplice, ma non al punto da essere definita in poche parole, in una formula. Essa è di tipo organico più che razionale, e dialettico più che semplicemente logico. Sfugge alle categorie geometriche del razionalismo volgare, ma corrisponde molto bene alle forme di pensiero introdotte dalla scienza relativista. A mio parere il movimento intimo del pensiero federalista potrebbe essere paragonato ad un ritmo, ad una respirazione, all’alternanza perpetua di sistole e diastole. Il pensiero federalista non progetta davanti a sé un’utopia […] che si tratterebbe semplicemente di raggiungere, o dei piani statici che bisognerebbe realizzare in quattro o cinque anni (aggredendo in modo spietato le realtà vive che ostacolano il piano). Essa cerca al contrario il segreto di un equilibrio delicato (e costantemente in costruzione) tra i gruppi: i quali vanno composti nel loro pieno rispetto, e non affatto sottomessi gli uni agli altri, o distrutti uno dopo l’altro.»
In questa lucida visione, v’è una parola che spicca sulle altre: equilibrio. Il federalismo, infatti, non è un’asettica e immutabile formula matematica, bensì una costante ridefinizione degli equilibri: è un concetto forte e dinamico. Per dirla con le parole di Carlo Moos, professore emerito di Storia contemporanea presso l’Università di Zurigo, il federalismo è «ricerca di unità nella molteplicità».In Italia, invece, la principale diatriba sul (presunto) federalismo si è basata sul suo carattere competitivo o cooperativo, con la prima opzione a rappresentare – secondo i detrattori – un pericolo per il Sud, come se ci fosse da difendere un presente fatto di ricchezza e di benessere. Dunque, per quanto possa risultare affascinante e di per sé sia, da un punto di vista dottrinale, estremamente interessante misurare il grado di federalismo o di regionalismo di un Paese, o procedere nelle più disparate classificazioni, ben più importante a fini pratici è capire in che modo il federalismo è funzionale alla risoluzione dei problemi. La contraddittorietà e la genericità delle motivazioni che sono state addotte negli ultimi trent’anni non ha mai consentito di fissare dei punti cardine dai quali partire per delineare quale tipo di percorso federalista dovrebbe intraprendere l’Italia e quali vantaggi dovrebbe portare.
Un fattore spesso completamente ignorato in sede di analisi è chiedersi se l’attuale assetto territoriale, amministrativo e giuridico dell’Italia sia attualmente il migliore possibile e se, in una prospettiva futura, le unità che compongono tale assetto possano essere lo scheletro di una repubblica federale. La risposta è, in entrambi i casi, negativa. L’attuale suddivisione territoriale, che assegna un ruolo primario alle regioni e che, nonostante i tentativi di riforma, continua a ricalcare il modello napoleonico e centralista adottato al momento dell’unità d’Italia, non ha la legittimità storica e politica delle unità federali classiche e non riflette nemmeno la grande varietà di socio-culturale del territorio. Già nel 1968, il geografo Calogero Muscarà definiva le regioni «una conchiglia vuota sul piano identitario». Inoltre, è da registrare un aspetto fondamentale in chiave funzionale: il regionalismo italiano mostra una palese perdita di competitività. Nell’Eu Regional Competitveness Index, elaborato nel 2013 dalla Commissione Europea, l’Italia figura in 18 esima posizione, dietro Cipro e Portogallo. La Lombardia, che fino al 2010 si trovava tra le cento regioni europee più competitive, è finita al 128 esimo posto su 262; il Lazio, che può vantare la capitale, è solo 143 esimo. Campania, Sardegna, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia occupano il fondo della classifica, figurando in posizioni oltre la 200 esima.[1] Un trend che è proseguito anche negli anni successivi. Questo quadro, piuttosto desolante, fotografa un’inadeguatezza di fondo del modello regionale, che non appare opportuno porre in una soluzione di continuità per un futuro assetto federale. Pertanto, qualsiasi discorso su di un federalismo per l’Italia non può prescindere da una radicale riorganizzazione territoriale.
All’Italia serve un federalismo che nasca dal basso: dalle tradizioni, identità e peculiarità dei territori. Un federalismo dei municipi in grado di governare la globalizzazione. Carlo Cattaneo, nel saggio La città come principio ideale delle istorie italiane, pubblicato nel 1858 sulla rivista Il Crepuscolo, ricostruisce mirabilmente l’evoluzione storica delle città italiane, delineando un federalismo che germoglia dalle identità municipali. La città non è solo un luogo fisico, ma un crocevia di relazioni umane, di sviluppo e commerci, di aggregazione sociale, di mutua integrazione, di radicamento popolare. I municipi nascono, fioriscono, vengono soggiogati dai barbari, ma resistono e preservano il loro retaggio linguistico, culturale e religioso: sono la culla della società cristiana e conoscono lo splendore dell’età comunale. «Esso può venire dominato da estranee attrazioni, compresso dalla forza di altro simile stato, aggregato ora ad una ora ad altra signoria, denudato d’ogni facoltà legislativa o amministrativa. Ma quando quell’attrazione o compressione per qualsiasi vicenda viene meno, la nativa elasticità risorge, e il tessuto municipale ripiglia l’antica vitalità. Talora il territorio rigenera la città distrutta. La permanenza del municipio è un altro fatto fondamentale e quasi comune a tutte le istorie italiane»[2]. E ancora: «Le nostre città non sono solamente la fortuita sede d’un maggior numero d’uomini, di negozi, d’officine e di un già grosso deposito di derrate […] sono il centro antico di tutte le comunicazioni di una larga e popolosa provincia; vi fanno capo tutte le strade, vi fanno capo tutti i mercati del contado, sono come il cuore nel sistema delle vene»[3]. Cattaneo, nella sua ampia produzione letteraria, torna successivamente a ragionare su di un ordinamento federale per l’Italia nelle Considerazioni sul primo volume dell’Archivio triennale del 1850: «Il numero delle parti non importa, purché abbiano tutte egual padronanza e libertà: e l’una non abbia titolo a far servire a sé alcun altra, tirandola a sé, e distraendola dal nodo generale. Tra la padronanza municipale e la unità nazionale non si deve frapporre alcuna sudditanza o colleganza intermedia, alcun partaggio»[4].
È da queste attualissime considerazioni che si deve partire: il nostro Paese è un arazzo di tradizioni, dialetti, usi e costumi gelosamente custoditi a livello locale, imprigionato in una struttura istituzionale che non consente di portare in superficie il grande potenziale, anche economico, che tale diversità sarebbe in grado di generare.
Si veda:
[1] http://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/dibattiti-e-idee/2013-08-26/mappa-competitivita-cosi-italia-141647.php?uuid=AbMfWWQI
[2] C. Cattaneo, Scritti storici e geografici, a cura di G. Salvemini e E. Sestan, Firenze, 1957, vol. 2°, p. 386-387.
[3] C. Cattaneo, Scritti economici, a cura di A. Bertolino, Firenze, 1956, vol. 1°, p. 116-117.
[4] C. Cattaneo, Tutte le opere, a cura di L. Ambrosoli, Milano, 1974, vol. 5°, p. 648