Alcune settimane fa Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, ha avanzato una proposta che non va fatta certo lasciata cadere. Dinanzi al progetto governativo di tassare direttamente e a scadenza mensile i cinque milioni di lavoratori autonomi, Bonomi ha buttato sul tavolo l’ipotesi di una vera eguaglianza di tutti dinanzi al fisco, rispolverando l’idea eliminare il sostituto d’imposta. In sostanza, le aziende smetterebbero di trattenere dalla busta paga le imposte di operai e impiegati per consegnarle allo Stato: consegnerebbero ai dipendenti lo stipendio lordo, lasciando che siano loro a versare all’Erario quanto esso pretende.
Già vent’anni fa il partito radicale di Marco Pannella raccolse 16 milioni di firme per abrogare, tra le altre cose, proprio il sostituto d’imposta. Allora, però, la Corte costituzionale usò lo schermo dell’articolo 74 della carta fondamentale – che vieta referendum in tema di leggi tributarie e di bilancio – per impedire una consultazione sul tema: anche se di tutta evidenza non erano in gioco imposte o aliquote, ma solo una modalità di pagamento e riscossione.
Al centro della questione, è del tutto evidente, ci sono esigenze cruciali di libertà. Perché se i lavoratori dovessero ricevere per intero quanto l’azienda deve pagare, essi inizierebbero a percepire molto meglio il peso dello Stato. Politici, burocrati e amministratori dovrebbero iniziare a tassare meno e spendere meglio, poiché nei dipendenti crescerebbe la consapevolezza di quanto è oneroso (oltre che inefficiente) l’intero apparato pubblico. E se la politica nel suo insieme è sempre stata contraria all’abolizione del sostituto d’imposta, il motivo è proprio lì.
Per il lavoratore, che in ogni caso già adesso deve rivolversi a un commercialista o a un Caf per gestire i propri obblighi tributari, alla fine non cambierebbe quasi nulla. L’unico mutamento consisterebbe nel fatto che i suoi soldi transiterebbero fugacemente sul suo conto, prima di essere assorbiti dall’idrovora statale.
Dopo i radicali, chi in questi anni ha fatto propria tale battaglia è Giorgio Fidenato, un piccolo imprenditore friulano che ha deciso di versare ai dipendenti lo stipendio lordo, informando loro e la stessa pubblica amministrazione di tutto ciò. Un argomento forte utilizzato in tale controversia legale, che ha costretto Fidenato a entrare e uscire più volte dalle aule dei tribunali, è stato il rigetto di ogni forma di corvée, dato che oggi le imprese sono costrette a operare per lo Stato quali esattori (anche se non ricevono nessun compenso per tutto questo e anche se non si tratta certamente del loro lavoro).
Se adesso il tema è sollevato dal presidente di Confindustria è possibile sperare che da quelle battaglie pionieristiche e di testimonianza possa risultare un qualche cambiamento effettivo. Apparentemente può sembrare solo una piccola conquista in termini di trasparenza e correttezza, ma nei fatti un cambiamento di questo tipo potrebbe avere conseguenze davvero rilevanti.
Una maggiore percezione di quanto ognuno dà all’idrovora statale spingerebbe pure a chiedere, come Nuova Costituente chiede, un riavvicinamento tra le istituzioni e le comunità. In fondo, è proprio sulla base di questo rapporto fumoso e in sostanza intelligibile che si regge questo rapporto malato tra uno Stato centrale del tutto inadeguato e una società che è assai più vittima che protagonista, e che ha bisogno di vedere allargata gli spazi di libertà.