di Carlo Lottieri
Da qualche tempo la “questione catalana” sembrava essere uscita di scena. Dopo la grave crisi dell’ottobre 2017, quando Madrid aveva mandato la Guardia Civil a impedire con la forza lo svolgimento di un referendum sull’indipendenza, nelle fila dei fautori di una Catalogna separata dalla Spagna era entrato un netto scoramento. Alcuni esponenti politici erano finiti per anni in prigione mentre altri – a partire da Carles Puigdemont, presidente della Generalitat nei giorni in cui si tentò di far votare la popolazione – erano stati costretti a prendere la via dell’esilio; e anche se poi tre di loro (oltre a Puigdemont, anche Toni Comin e Clara Ponsatì) si sono fatti eleggere al Parlamento europeo, le difficoltà sanitarie ed economiche di questi ultimi tre anni hanno spinto tanti cittadini comuni a non ritenere più la secessione il loro obiettivo principale.
Adesso le cose potrebbero cambiare. Negli scorsi giorni la Corte dell’Unione europea ha tolto l’immunità parlamentare ai tre eletti a Bruxelles. Di conseguenza, essi potrebbero essere consegnati alla giustizia spagnola e quindi, nel pieno dell’Europa, ci si troverebbe di nuovo a fare i conti con oppositori politici che vengono perseguitati da una giustizia al servizio di ben definiti interessi.
Per giunta, in questa situazione le due maggiori forze dell’indipendentismo (Junts por Catalunya ed Esquerra Republicana) saranno costrette, volenti o nolenti, a mettere da parte le loro divisioni: in larga misura dettate da personalismi. È possibile che il riaccendersi della persecuzione giudiziaria favorisca la nascita di una nuova unità tra i separatisti catalani, che hanno bisogno di ritrovare una comune linea d’azione.
C’è poi all’orizzonte il voto per il Parlamento spagnolo. Il rinnovo di Camera e Senato, a Madrid, sembra possa comportare un successo del partito popolare, ma è difficile immaginare che le forze di destra (da sole) possano avere numeri sufficienti per governare. Lo stesso discorso vale per il partito socialista e per la sinistra, che analogamente non raggiungeranno il 50% dei seggi. Com’è possibile tutto ciò? Se nessuno dei due schieramenti può facilmente vincere è perché esiste in Spagna una costellazioni di forze autonomiste e indipendentiste che non si schierano con nessuna coalizione. E il gruppo più corposo di indipendentisti è costituito proprio dai catalani.
Quello stesso Carles Puigdemont che il procuratore Pablo Llarena (legato a vecchie logiche franchiste) vorrebbe cacciare nelle patrie galere rischia allora di avere in mano alcune delle carte decisive per chiudere la partita del governo in Spagna. È chiaro, però, che difficilmente i voti dei catalani saranno messi a disposizione di una nuova maggioranza se non si metterà fine a ogni persecuzione politica e se non garantirà ai catalani lo stesso diritto di decidere sul proprio futuro che il Regno Unito nel 2014 concesse agli scozzesi.
Quanto succederà in queste settimane tra Madrid e Barcellona non è allora di secondaria importanza. È vero che la Spagna ha una storia peculiare, legata a un’eredità politicoculturale franchista mai completamente superata, ma in fondo il regime spagnolo sta difendendo quell’inviolabilità dei confini che è un dogma in molti altri Paesi: inclusi Francia, Italia, Germania, ecc. Se in nome della democrazia e di istituzioni basate sul consenso nella penisola iberica si cominciasse a ragionare su una via “scozzese” e referendaria, in grado di costruire su nuove basi il rapporto di Madrid con le comunità di cui il Paese si compone, sarà l’intera Europa a entrare in una fase storica nuova. Potrebbe essere l’inizio di una riformulazione – più liberale, più democratica, più localista e più pluralista al tempo stesso – di tutto il Vecchio Continente.
Pubblicato sul settimanale svizzero “Mattino della Domenica”, 16 luglio 2023