PARTE I – L’importanza della teoria e il problema delle parole al vento. Su autonomia, federalismo e secessione.
Stanno venendo avanti le falangi dei cittadini che si sono ingrassati con la Prima Repubblica e non hanno nessuna intenzione di abbandonarla. Anzi, cercano di restaurarla, soprattutto nel suo segreto perverso, che è quello di fare debiti e rovesciarli sulle spalle dei nipoti. Questo rovinerà il Paese, lo farà diventare afro-balcanico, non certo un Paese europeo.
Gianfranco Miglio (1987)
Premessa
Com’era prevedibile e come accade sempre in politica, i nodi stanno venendo al pettine. Le mancate, indispensabili riforme strutturali, che negli anni Novanta erano state ostacolate da una classe politico-burocratica e dai sui ideologi di corte, beneficiari netti di uno Stato corrotto, sempre più esoso e al contempo fallimentare – ma convinti di poter tirare a campare ancora a lungo sul Titanic già spacciato – hanno lasciato che al loro posto si aprisse una voragine che, accelerata dalla crisi pandemica mondiale, finirà per inghiottire anche loro. Se lo Stato moderno sta incontrando ovunque colossali problemi, nello Stato italiano questi sono ancor più devastanti. Le pretese di sovranità di questi mastodontici carrozzoni unitari centralizzati – ferrivecchi della storia del potere politico in Europa, risalenti alla fine del Settecento (sempre più in contrasto con l’economia del XXI secolo e per quest’ultima autentiche cappe di piombo destinate a saltare) – non riescono più a essere soddisfatte. Nonostante le illusioni restauratrici di nazionalisti interessati, le risorse estraibili da questi serbatoi geografici di ricchezza si restringono. Lo sganciamento fra spazio politico e spazio economico priva il potere statale della disponibilità sovrana su di esse. Chi impersona lo Stato fa sempre più fatica a tenere sotto controllo l’enorme quantità di compiti che si è auto-attribuito, invadendo tutti i settori, fra Ottocento e Novecento e con le guerre mondiali. Le sempre più frequenti mancate promesse dello “Stato sociale”, nato per ragioni belliche e oberato di compiti in continua espansione ma sempre meno finanziabili, fanno sì che cittadini sempre più numerosi e delusi, spinti da bisogni crescenti e sempre più diversificati, si facciano cruciali domande sulla sua legittimità e sull’obbligo di fornirgli fedeltà e obbedienza. La finzione dello “Stato di diritto” lascia trasparire la realtà materiale dell’esercizio del potere personale e di gruppo, del clientelismo e del familismo, che tirano dalla loro parte una coperta sempre più corta. L’impoverimento diffuso, la de-industrializzazione senza precedenti, la disoccupazione di massa, i fallimenti di imprese, l’inferno burocratico e fiscale che sottopone a inaudite corvée sudditi senza diritti stabili e certi, vessati dal reticolo soffocante di una legislazione ipertrofica, contraddittoria e continuamente variabile, il dilagare del parassitismo politico-burocratico, della corruzione, del debito pubblico che implica pagamenti di interessi esorbitanti che sottraggono risorse a altri settori vitali, il crollo della produttività (una caratteristica immancabile dei sistemi “di socialismo reale”) preannunciano un collasso generalizzato e senza appello, che travolgerà anche i ceti più garantiti.
La crisi delle dimensioni spaziali delle pretese di governo è lampante. I macro-Stati richiedono un’organizzazione strutturata, gerarchico-piramidale, basata su un’unità coatta se non incominciano a considerare soluzioni federali. Le grandi dimensioni implicano una complessità del potere e dell’amministrazione sempre meno governabile, relazioni fredde e distanti e, com’è rilevabile empiricamente, redditi pro-capite inferiori a quelli presenti nelle piccole dimensioni. Prima ancora che nella coscienza dei cittadini, la destrutturazione dell’unità del potere statale avviene nelle cose. Seguono la galoppante demistificazione di apparati e istituzioni rivestiti per secoli di un manto sacrale e parareligioso, che si accompagnano a crescenti aspirazioni verso il pluralismo politico e culturale e l’autogoverno. Per farvi fronte, le catastrofi della centralizzazione del potere vengono fatte passare dagli eredi della Prima Repubblica (riformata solo in apparenza) per “inefficienza locale” e quelle aspirazioni – nascoste sotto il tappeto, violando anche i principi basilari della sovranità popolare (espressi in referendum) – sono addirittura negate con la presunta, antropologica “incapacità di autogoverno” di intere popolazioni.
Come era accaduto negli anni Novanta – quando non era stato affatto risolto – il problema fondamentale rimane quello della chiarezza sulle vie d’uscita per le aspirazioni all’autogoverno, le uniche che possano salvare popolazioni produttive e operose da un destino afro-balcanico. Un problema enorme, questo, se si pensa alla confusione che per centocinquant’anni ha regnato su concetti, teorie e problemi rimossi dalle biblioteche, dalle Università, dall’agenda degli studi, dai dibattiti, quali le soluzioni federali, l’autonomia e il decentramento, il diritto di secessione, la sua pratica e le sue conseguenze. La mancanza di chiarezza sulla teoria ha creato una melma nella quale rischiano di impantanarsi coloro che aspirino a una via d’uscita. È come quando esploratori perdono la bussola e proprio per questo finiscono esposti a tutte le trappole e ai tranelli che si trovano sul cammino: in questo caso creati ad arte per ostacolarli, disorientarli e farli perire.
Segue:
Parte II: Autonomia
Parte III: Federalismo
Parte IV: Secessione