Vicinissima a Wuhan, il ground zero della pandemia di coronavirus, l’isola di Taiwan è stata fra le prime ad esserne coinvolte. Eppure, ad oggi (21 giugno 2020) registra solo 446 casi confermati e 7 morti, su una popolazione di circa 23 milioni di abitanti. Un record. Merito della trasparenza dell’informazione, dell’esperienza della precedente epidemia di Sars, della tempestività con cui le autorità sanitarie hanno messo a disposizione della popolazione mascherine, esami diagnostici e metodi di tracciamento e, soprattutto, merito della piena indipendenza (anche se non dichiarata) dalla Repubblica Popolare Cinese.
Taiwan ha costituito un modello per il mondo intero di lotta al coronavirus, ma non ha potuto condividere la sua esperienza con altri Paesi, perché l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Onu stessa non ne riconoscono l’esistenza, se non come “provincia” della Cina. Il primo gennaio, mentre l’Oms non rispondeva neppure alle richieste di chiarimento del governo di Taipei e la Cina puniva come allarmisti irresponsabili i primi medici che segnalavano l’esistenza di un nuovo coronavirus, Taiwan entrava già in stato di allerta. Veniva deliberatamente ignorata. Per il resto del mondo, l’allerta sarebbe incominciata solo il 23 gennaio, quando il regime di Pechino si è deciso ad ammettere il problema. Anche durante la pandemia, Taiwan non ha potuto partecipare ad alcuno dei lavori dell’Oms. Mai un boicottaggio deliberato di una nazione, di cui non si vuol riconoscere l’indipendenza, è costato così caro al mondo intero.
La questione di Taiwan parte da molto lontano, ma la richiesta di indipendenza è molto più recente. La Repubblica di Cina (questo il suo nome ufficiale) nasce nel 1949, alla fine della Guerra Civile cinese. Una volta che Mao Zedong ebbe conquistato il potere, lo sconfitto, il generale nazionalista Chiang Kai-shek, si ritirò sull’isola, ex colonia giapponese. Allora il governo di Taiwan si riconosceva come unico legittimo di tutta la Cina e come tale era ammesso nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. I veti degli Stati Uniti, suoi grandi protettori, impedirono al regime maoista di sostituirvisi. Ma nel 1971, con i voti di tutti i Paesi afro-asiatici che avevano conquistato l’indipendenza dagli imperi coloniali e guardavano a Mao con simpatia, e con gli Stati Uniti stessi che puntavano sulla Cina come possibile contraltare comunista all’Unione Sovietica, la Repubblica di Cina perse le sue credenziali e venne letteralmente rimpiazzata dalla Repubblica Popolare Cinese. Fino al 1991, Taiwan rimase un regime nazionalista, autoritario e rivendicò il diritto di governare anche su tutta la Cina continentale. Le cose cambiarono drasticamente con il Movimento del Giglio Selvatico del 1990 che portò alle prime libere elezioni l’anno successivo.
Dal 1991, il presidente Lee Teng-hui (1988-2000) iniziò, seppure non dichiaratamente, a chiedere l’indipendenza per la sua isola e per i suoi abitanti, a costo di rompere con il Guomintang, il partito nazionalista. La tendenza indipendentista si rafforzò ulteriormente con il successore, il presidente Chen Shui-bian (2000-2008). Ma è soprattutto con l’attuale presidente, la prima capo di Stato donna, la democratica Tsai Ing-wen, che l’indipendenza è diventata un obiettivo prioritario. Dichiararlo costerebbe carissimo all’isola e ai suoi 23 milioni di cinesi. La Repubblica Popolare Cinese minaccia ogni anno di invadere Taiwan, se l’indipendenza dovesse essere ufficialmente proclamata. È una promessa che è stata puntualmente rinnovata anche a gennaio scorso. Pechino considera prioritaria l’integrità nazionale e, nella sua mappa ideologica, include Taiwan fra le sue province. Anche se, di fatto, è già indipendente, non deve esistere sulle carte geografiche e nelle sedi diplomatiche. Proprio a cavallo fra il 2019 e il 2020, Xi Jinping ha condotto una forte offensiva politica per far rompere le relazioni con il governo taiwanese da alcuni dei micro-Stati (come le isole Salomone, nel Pacifico) che ancora hanno rapporti diplomatici con Taipei. La Santa Sede ancora riconosce Taiwan, ma è possibile che il dialogo fra Cina e Vaticano includa anche un cambio di ambasciata? Non è da escludere.
La Cina mira a una riunificazione “consensuale” (non armata) con Taiwan, ad applicare anche con la “provincia ribelle” il modello “un Paese, due sistemi” sperimentato a Hong Kong dalla sua riunificazione nel 1997. Ma proprio questo equilibrio ha dimostrato di non funzionare: Hong Kong ormai è sempre meno autonoma, come dimostra la nuova Legge per la sicurezza nazionale, scritta a Pechino, ma imposta ai cittadini dell’enclave. “Un Paese, due sistemi” è destinato a diventare un “sistema unico” sotto il centralismo, tutt’altro che democratico, del regime comunista cinese. Alla luce di questi eventi, la presidente Tsai Ing-wen, appena rieletta per un secondo mandato, ha dichiarato che il sistema “un Paese, due sistemi” è completamente “fallito” e come esso non sia più una via percorribile. Certo, se privata completamente del sostegno internazionale, Taiwan (23 milioni di abitanti) rischia di soccombere di fronte al colosso cinese (1 miliardo e mezzo di abitanti).
Eppure, questa indipendenza di fatto ha portato già a risultati eclatanti. Sebbene si parli spesso della Cina come della potenza economica emergente per eccellenza, il confronto fra il regime di Pechino e il governo di Taipei è impietoso: il Pil pro capite di Taiwan è di 22.900 dollari, contro i 9.770 della Cina popolare. A Taiwan, l’1% della popolazione è sotto la soglia di povertà, contro il 27% della popolazione della Cina popolare. Taiwan ha scelto da decenni la via di un mercato libero, è all’undicesimo posto al mondo per libertà economica (Index of Economic Freedom), mentre la Cina è al 103° posto.[1] Se Taiwan vive e prospera e riesce a sconfiggere l’epidemia di Covid, è perché non è un Paese comunista e perché è già, di fatto, indipendente.