Contributo al dibattito precongressuale di Nuova Costituente
di Marco Bassani
In questa breve analisi, che sottopongo agli amici di Nuova Costituente, non accennerò neanche ai problemi che il tentativo di contrasto alla pandemia ha generato. Si è trattato di una bomba d’acqua sul bagnato, ma la crisi italiana non nasce dalle emergenze né del 2008, né del 2020. Si tratta di un inabissamento costante che va avanti dall’inizio degli anni Sessanta dello scorso secolo. Oggi tutti i nodi arrivano semplicemente al pettine.
- Occidente e Italia: crisi e parossismo parassitario
Quello che sta accadendo in Europa e, in misura minore, in America è molto simile al crollo del comunismo cui abbiamo assistito oltre trent’anni fa. Stiamo soccombendo sotto il peso del settore pubblico più pesante mai costruito nella storia dell’umanità. È la storia, piuttosto lineare, di un equilibrio impossibile da mantenere fra due gruppi che mettono in scena un’alternativa statalista della lotta di classe: quella fra consumatori e produttori di tasse.
Si potrebbe sostenere che il capitalismo sia vittima del suo stesso immenso successo: se nell’Ottocento si riteneva che una tassazione oltre il 10% della ricchezza prodotta avrebbe ottenuto il risultato di distruggere l’economia, nei secoli successivi le classi al potere si sono invece convinte che si potesse andare avanti all’infinito, tassando le generazioni future e chiunque producesse ricchezza.
Le aree italiche sono ormai pienamente naufragate nell’unità, nel centralismo esasperato e in una statolatria talmente esasperata da aver soppiantato l’antico sentimento religioso che albergava in queste terre. Per dirla con Luigi Sturzo, “Dio è scomparso e l’uomo è divenuto schiavo”: tanto più l’uomo si affranca da Dio, tanto più diventa schiavo di provvidenze tutte terrene. Se allora il problema era la figura dello Stato provvidenza, o del “panteismo di Stato” per utilizzare la sua espressione preferita, oggi ormai dalle Alpi a Capo Passero la situazione sta semplicemente precipitando. L’Italia è talmente all’avanguardia nel declino dell’Occidente dall’essere ormai considerata una vera spia del futuro. Visto con distacco, appare il Paese più arretrato fra le aree meno arretrate, ma ormai stretto in una morsa che lo sta trascinando in un terzo mondo indifferenziato. Anche le aree un tempo più avanzate stanno ormai precipitando in una spirale di miserevoli paghe pubbliche. Milano, un tempo l’undicesima area metropolitana più ricca del mondo per PIL pro-capite, sta scalando al contrario tutte le classifiche e fra pochi anni abbandonerà anche le prime cento città più ricche. Questo destino da terzo mondo e l’incapacità di offrire un avvenire dignitoso ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro appaiono ineluttabili, ma hanno cause molto semplici e facili da identificare.
Negli ultimi quattro decenni abbiamo assistito al più grande trasferimento di risorse dal settore privato a quello pubblico. Ed è un movimento continuo che risulta tecnicamente impossibile da bloccare. L’Italia, da oltre mezzo secolo, non può che riprodursi di fallimento in fallimento, continuando a drenare risorse dai settori produttivi. Mentre state leggendo queste righe le generazioni future continuano a essere sempre più indebitate, quelle presenti sempre maggiormente tassate e non esiste alcun programma di nessun partito per porre fine a tutto ciò. Poco più di dieci anni or sono fu chiamato Mario Monti per mettere in sicurezza i conti pubblici. Da allora la tassazione è letteralmente esplosa (con una spesa pubblica di circa mille miliardi in rapporto ai 1800 di ricchezza prodotta) e i conti pubblici sono saltati al punto che il rapporto debito/PIL, che era del 106% nel 2006, è ormai al 155%.
E il perché è ovvio: l’Italia incarna la differenza fra avere ed essere: non ha problemi, è il problema.
- Il Mezzogiorno: il problema dei problemi
Trent’anni or sono i Paesi che fuoriuscivano dalla terribile esperienza delle “democrazie popolari” erano tutti indistintamente più poveri del nostro Mezzogiorno. Ora il Sud Italia è meno ricco e avanzato di qualunque area ex comunista. I nostri vicini orientali avevano un vantaggio enorme durante il comunismo: sapevano perfettamente che il loro sistema sociale, economico e politico era una vergogna e una farsa. Invece di esaltare il lavoro e la creatività umana, li frustrava costantemente. In effetti, nel caso della disintegrazione dei sistemi collettivisti, solo una domanda sembrava pertinente: perché ci è voluto così tanto? In questa analoga, anche se appena più lenta, riproposizione del dramma statalista che stiamo vivendo oggi, la domanda è diversa: saremo in grado di cogliere le verità di fondo, di giungere a una comprensione comune e di costruire così la possibilità di una via d’uscita?
Esistono svariati motivi di carattere etico che portano a considerare moralmente ingiustificate le attuali rendite parassitarie del Mezzogiorno. Un rapporto politico fondato sul “votami e la tua area geografica avrà un’entrata garantita” non può essere considerato decoroso e adatto a fondare convivenze umane appena accettabili. I difensori dell’unità italiana e del sistema politico attuale, basato su un massiccio trasferimento di risorse dal Nord verso il Mezzogiorno, arrecano alle popolazioni meridionali tanto nocumento quanto i protezionisti di un secolo or sono, che determinarono il crollo dell’agricoltura meridionale. Nel medio e lungo periodo, il Sud non ha davvero nulla da guadagnare dal fatto di essere il destinatario di una ricchezza prodotta altrove. E questo per una folla di buoni motivi.
In primo luogo, vengono finanziate le classi politiche. Vale a dire, la quota che arriva nelle tasche dei campani, dei calabresi o dei siciliani poveri è semplicemente risibile. Il massiccio esproprio subito dalle famiglie e dalle imprese del Nord serve in larga misura ad alimentare il finanziamento del ceto politico e burocratico, che poi utilizza queste stesse risorse a proprio favore per procurarsi il consenso della popolazione. Insomma, si rafforza il circolo vizioso di una dipendenza della società dalla politica, che è il principale guaio del Mezzogiorno.
Le organizzazioni criminali fanno affari in molti modi: nei settori classici protetti dal proibizionismo, droga, in primo luogo, ma anche gioco d’azzardo e prostituzione. E tuttavia uno degli ambiti di maggiore importanza per l’economia criminale è la cosiddetta “mafia degli appalti”. Chiudere il rubinetto che porta denaro a quanti poi affidano commesse a imprese controllate dalla mafia, dalla camorra o dalla ‘ndrangheta è l’unico modo per adoperarsi a sconfiggere la criminalità. È lo scorrere di quel fiume di danaro che inonda il Mezzogiorno la causa prima del brodo di coltura di ogni forma di criminalità. In breve, sono solo due gruppi a risultare i beneficiari netti del bottino del Nord: la classe politica e i malviventi (due insiemi che si intersecano regolarmente).
Inoltre, il sistema degli incentivi viene così stravolto. I trasferimenti di risorse mantengono artificiosamente alti (se paragonati a quelli del Centro-Nord) gli stipendi dei dipendenti pubblici. Lavorare al catasto a Milano o a Enna, a Bergamo o a Palermo, significa ottenere lo stesso stipendio nominale. Ma il reddito reale è molto diverso, dato che il costo della vita è assai più elevato nel Settentrione che non nel Mezzogiorno. Quali sono le conseguenze? I giovani, in questa situazione, vengono di fatto spinti a entrare nel settore pubblico e nell’amministrazione statale, dato che – oltre al posto sicuro – si ottiene anche un reddito che spesso permette una vita più che decorosa. Tagliare il finanziamento del Nord verso il Sud porterebbe, nel tempo, a una naturale differenziazione degli stipendi e ciò aiuterebbe lo sviluppo delle attività private e quindi la creazione della ricchezza.
La povertà altro non è che l’incapacità di risolvere i propri problemi. Risulta evidente, quindi, che mai e in nessuna situazione l’assistenzialismo possa favorire la fuoriuscita da una situazione di sottosviluppo e la crescita di una popolazione.
Come è possibile che, fra chi percepisce i favori del governo, non si levi mai una voce di libertà capace di chiamare a una rivolta morale coloro che sono annientati dai fiumi di danaro che scorrono verso Sud? Se la relazione parassitaria su cui si fonda l’Italia causa danni economici (forse) irreversibili in alcune regioni, per altre il prezzo da pagare è moralmente ben più alto: milioni di persone vivono alla mercé delle decisioni politiche e dei soldi degli altri, ossia non hanno alcuna possibilità di progettare in maniera autonoma il proprio futuro.
Se con la mano pubblica si risolvessero i problemi dello sviluppo economico il Mezzogiorno d’Italia sarebbe una delle zone più prospere del mondo e invece, nel corso degli ultimi trent’anni, ossia dalla fine del comunismo a oggi, si è visto superare, in termini di reddito pro capite, da tutti i Paesi europei che fuoriuscivano dal buco nero del comunismo.
TESI 1
Occorre salvare i meridionali non con i soldi del Settentrione, ma dai soldi del Settentrione.
- La crisi di un modello nato per rendere pubbliche le risorse private
La popolazione del Mediterraneo, drogata di pubblico danaro, indebitata fino al collo, si è convinta che non si tratti di soldi veri, ma di un semplice trucco contabile (e se così non fosse, in ogni caso li pagheranno altri, i figli dei figli dei tedeschi, i veneti, gli sloveni…).
Il fatto è che – lo ribadiremo fino alla nausea – ciò che è accaduto in Italia negli ultimi decenni è il più grande trasferimento di risorse della storia dal settore privato a quello pubblico. E o si comprende che con queste strutturali differenze territoriali, con le politiche redistributive – collante della classe politica e dell’unico partito italiano, quello della spesa pubblica – e con il centralismo perenne che accompagna tutta la storia unitaria il disastro era inevitabile oppure si continuerà a cianciare di meno Stato e meno burocrazia, che altro non sono che pii desideri irrealizzabili.
Il piccolo nucleo di produttori asserragliato in un ridotto fra le Alpi e il Po entro poco tempo sarà spazzato via, se non troverà governi locali capaci di iniziare un contenzioso con Roma volto a salvare il sistema produttivo. E il Mezzogiorno finirà per ritrovarsi a sud di nessun nord, sognando di essere assistito da altri ricchi europei. In fondo, va detto con grande franchezza, l’europeismo d’accatto che è diffuso in tutta la penisola si declina in due grandi aspirazioni: i settentrionali vorrebbero essere assistiti nell’assistere e i meridionali vorrebbero essere assistiti ancora di più.
Stiamo vivendo non la crisi di un modello di welfare, come sostengono i più avvertiti, ma la crisi di un ordine politico fondato sullo Stato. E il dramma è che, di fronte allo Stato e ai problemi che esso pone, siamo tutti intellettualmente molto poveri, perché ci troviamo sotto l’incantesimo di una tirannia concettuale, che fa sì che non possiamo pensare alla politica se non in termini statuali.
Siamo nel mezzo di una crisi di un modello e di un ordine politico che esiste da diversi secoli, e occorre cogliere almeno un aspetto dello Stato. Il grande progetto dello Stato (moderno) era abbastanza semplice: la centralizzazione del potere, cioè la creazione di un centro di comando per tutte le operazioni di governo. All’alba della modernità lo Stato ha iniziato il suo lungo cammino con la creazione, da parte del potere sovrano, di un unico centro decisionale di comando, che si è imposto gradualmente su tutti gli altri. L’accentramento del potere avvenne durante una “guerra di annientamento” contro il cosmo medievale, le chiese, le corporazioni, le comunità naturali e poi anche la famiglia. Il risultato di questo processo fu la costruzione di una macchina di controllo che non rappresentava né governati né governanti e lasciava sulla scena solo due attori: lo Stato onnipotente e l’individuo moderno, una sorta di “nowhere man” senza radici né anima, come la figura immortalata nella canzone dei Beatles del 1966.
Il liberalismo classico ha cercato di mitigare la durezza dello Stato, o di addomesticare la bestia. Ma non ha mai sfidato lo Stato sul suo terreno, vale a dire il territorio e il monopolio della forza, che sono, per questa costruzione giuridica, ciò che i capelli e le donne erano per Sansone, fonti di forza e anche di vulnerabilità. E così alla fine ha fallito. Dopo tre secoli di tentativi di smantellare l’enorme concentrazione di potere prima in capo alle monarchie assolute e poi all’assolutismo parlamentare, ogni sforzo si è rivelato vano. Addio anche al sogno obsoleto e onorato dei liberali classici: costruire un mondo in cui un potere onnicomprensivo si fermasse e non sconfinasse nei diritti dell’individuo, poiché la sua sfera era garantita dal “diritto di proprietà”. Se aveva un senso ai tempi di Benjamin Constant, un simile schema politico diventa privo di qualsiasi significato reale in una società democratica, che si basa su un’unica regola: votare sul danaro degli altri e garantirsi rendite parassitarie.
Dobbiamo decidere se bruciare la nostra ricchezza.
TESI 2
Non è un generico più o meno Stato che ci può salvare, ma solo più governi sullo stesso territorio. Solo il potere può contrastare il potere: la creazione di molte sale di comando sullo stesso territorio.
- Secessioni a catena
L’unica via d’uscita è appoggiare qualsiasi sviluppo autonomista, federalista e, in ultima analisi, persino secessionista nel mondo moderno. In realtà, qualunque dissoluzione degli Stati nazionali deve essere considerata con favore. La disgregazione territoriale dei Moloch contemporanei – la loro disaggregazione in unità sempre più piccole – porterà necessariamente alla concorrenza tra le istituzioni: le nazioni più piccole vivono in un mercato globale e quindi saranno più pronte ad abbassare il tasso di tassazione per attirare imprese e persone. Inoltre, più piccolo è il Paese, maggiore sarà l’incentivo a scegliere il libero scambio rispetto al protezionismo.
La secessione, il decentramento e il federalismo autentico sono gli unici strumenti strategici per limitare il potere dello Stato attenuando le rigidità dei vecchi monopoli territoriali della coercizione. La logica, così come l’esperienza, suggeriscono fortemente che diverse piccole comunità politiche, che occupano lo stesso territorio di un’ex mega-nazione, saranno molto più rispettose dei diritti individuali e della ricchezza. Dobbiamo renderci conto che, nonostante il nostro pregiudizio a favore dello Stato, la libertà, la proprietà e la pace sono state garantite molto meglio in altre fasi della storia europea, quando il monopolio della violenza su un determinato territorio era semplicemente fuori portata per le classi al potere. Le comunità autogestite del Medioevo, nell’Italia settentrionale e nell’Europa centrale, offrono esempi significativi di un modo totalmente diverso di garantire la pace e la sicurezza ai propri membri. E si possono ancora vedere i resti di un tale ordine policentrico in un Paese che, assai significativamente, non è ancora afflitto dai “nostri” problemi: la Confederazione elvetica.
Nell’epoca d’oro della libertà comunale mercanti e cittadini formavano i propri statuti, che regolavano i passaggi, le immigrazioni e gli scambi: in breve, tutto ciò che riguardava l’autogoverno. A quei tempi non esisteva una definizione chiara del potere su un determinato territorio, poiché non esistevano confini in senso moderno. Un potere istituzionalizzato trovava sempre un contropotere antagonista, che reclamava la fedeltà degli stessi sudditi. Il risultato era che ogni comando medievale non era altro che una pretesa, soggetta a essere contrastata e contenuta in una rete istituzionale di negoziazioni permanenti. Replicare il Medioevo, elvetizzare il presente, non è una chimera, ma è l’unico modo per imboccare una strada che conduca verso l’uscita da un depauperamento precipitoso.
Se vi è una cosa che la pandemia ci ha insegnato è che la Costituzione non è sufficiente: lo Stato, autoregolato e giudice ultimo dei suoi stessi poteri, crea inevitabilmente un monopolio assoluto e insormontabile. Al contrario, in un autentico sistema federale, il governo è soggetto ai controlli degli altri poteri governativi.
Siamo avviluppati in una lotta di tasse tra i beneficiari dell’azione governativa e un gruppo di produttori che si assottiglia sempre di più. Si tratta di una lotta che non può che concludersi con l’annientamento delle due parti in causa. La vittoria del parassitismo politico produrrà l’inaridimento definitivo delle fonti di ricchezza.
Mentre il blocco sovietico ha dimostrato il fallimento finale delle pratiche comuniste, in Occidente stiamo assistendo anche al crollo totale delle antiche categorie marxiste. Ci si chiede davvero che cosa avrebbe potuto dire il vecchio Karl della nostra situazione in cui il governo, ossia il comitato d’affari della borghesia, sta distruggendo, attraverso la regolamentazione e la tassazione, i mezzi di produzione nelle società capitalistiche più avanzate.
TESI 3
Per evitare che lo Stato distrugga l’apparato produttivo si deve bloccare la corsa alla redistribuzione della ricchezza a opera delle burocrazie illuminate. Solo dalla riscoperta delle dimensioni regionali e locali nasceranno anticorpi contro il consolidamento del potere.
- L’esistente partitico: un vuoto pneumatico
Ci troviamo alla fine di un percorso sprecato, di una strada lastricata di pessime intenzioni e di occasioni buttate. Inutile negare che la Lega – stanziatasi stabilmente a Roma fin da subito – ha consumato dal 1989 al 2010 ogni tipo di discorso possibile su federalismo, autonomismo, indipendentismo. Fino a rendere tutti questi temi vetusti, fuori moda e politicamente irrecuperabili. Le nostre aree non sono mai state note per la folle finanza, né per il piagnisteo col quale i governanti continuano a pietire soldi all’Europa meno stracciona.
Il lungo matrimonio, davvero infelice, fra la Lombardia e l’Italia nasce alla fine del Settecento. Da allora la nostra regione diventa essenzialmente l’avanguardia, certo un po’ meno povera e più “fortunata”, di un Paese (ideale, reale, convenzionale) che arriva fino a dove, nei momenti di cielo terso, si vede il lungomare di Tripoli. L’arrivo di Napoleone – che a Sant’Elena disse «Io mi sento toscano o italiano piuttosto che corso» – fu l’innesco di una serie di mutamenti che fecero lentamente slittare le nostre terre dall’Europa fredda al calore dei problemi mediterranei.
Basta recarsi in Ticino, nella Lombardia svizzera, per trarre grandi lezioni. Giacché esso rappresenta una Lombardia de-italianizzata e quindi ancora in grado di vivere civilmente. Si pone come il nostro dover essere: la Lombardia è un Ticino mancato. La civiltà a tutti i livelli – economico e sociale, culturale e politico – si raggiunge solo attraverso il libero mercato, la creatività e le fatiche degli uomini, non per mezzo di prebende pubbliche, redditi di cittadinanza e regalie del potere. La Lombardia si è sempre trovata in una posizione di anello economicamente più forte di una catena debolissima. Oggi deve guidare il fronte della riscossa dei territori e delle comunità.
L’Italia ha seguito tutta la parabola dell’ordine politico: assolutismo, nazionalizzazione delle istituzioni e trionfo di logiche autoritarie, tragedia del totalitarismo e, alla fine, il radicarsi di welfare state e politiche assistenziali selvagge.
La storia d’Italia non poteva essere diversa: tirannia fiscale e burocratico-amministrativa, governi più o meno dispotici, centralizzazione esasperata sono stati il sale dell’Italia unita. Il terrore, da parte dei politici, di ogni riforma autonomista, federale, è giusto e sacrosanto. Qualunque riforma istituzionale metterebbe davanti agli occhi di tutti chi la borsa la riempie e chi la svuota, chi vive del proprio lavoro e chi di sussidi.
Il fascismo è il cuore dell’intera vicenda “nazionale”, il baricentro di un’unificazione che è risultata impossibile da coordinare con gli strumenti della libertà. La proposta federale sconfitta nel corso del Risorgimento, annichilita durante il fascismo, è ormai scomparsa dall’agenda politica. Perché parlare di federalismo in Italia è come raccontare a un cieco i colori dell’arcobaleno. Territori federali per loro stessa natura hanno subito le preferenze centraliste delle classi dirigenti.
I lombardi sono costretti dal fisco a riscattare prima la propria terra, poi i propri corpi e infine le loro imprese. Paghiamo una taglia ulteriore rispetto a quella pro-capite che colpisce ogni malcapitato per il fatto di essere all’interno di un inferno fiscale di nome Italia. Questa tassa occulta è di circa il 18% della ricchezza prodotta in Lombardia. Abbiamo una spesa pubblica liberista (34%) e una tassazione socialista (oltre il 60%). Finanziamo a piè di lista il socialismo degli altri senza poterci neanche permettere di essere socialisti. Per quanto riguarda la “tempra morale” di una popolazione, sono molto preoccupato per i miei concittadini.
TESI 4
La Lombardia deve tornare a essere il motore della politica italiana, spingendo verso una ridefinizione dei territori e dei loro compiti.